La lezione del virus.

Una cosa buona questo virus, suo malgrado, la sta facendo. Ci sta mettendo nei panni dell’altro; di tanti altri, contemporaneamente. Ci sta insegnando che 600 euro al mese magari son un po’ pochini (bastava chiedere a chi, per vivere, deve accettare i “tirocini”, senza la dignità di un contratto degno, o le chiamate, o le prestazioni occasionali, o i contratti a venti ore che poi si lavora ugualmente per quanto c’è bisogno e bona al massimo le recuperi); ci sta insegnando che il click day è una schifezza irrispettosa (bastava chiederlo a un cittadino di paese terzo che avesse voluto venire a lavorare qua); ci sta insegnando che i pomodori e le arance non si raccolgono da soli (bastava non voltarsi dall’altra parte quando si sentiva parlare di sfruttamento lavorativo e caporalato); ci sta insegnando che l’amore è quello che si sceglie e non solo quello che ci è imposto dal sangue (bastava andarlo a chiedere a chi si è sempre dovuto amare di nascosto, tipo me, per non fare tanta strada); ci sta insegnando che la scuola non esiste senza corpo (bastava chiederlo a chi insegna nelle classi di 30 studenti, dove a fatica ti ricordi i nomi e cognomi); ci sta insegnando che anche un computer e una connessione decente, una casa e una finestra sono privilegi di classe (bastava chiederlo a un sacco di gente per cui la tecnologia e un alloggio dignitoso erano e restano fantascienza); ci sta insegnando che è orribile additare i contagiati e trattarli da untori (e sarebbe bastato chiederlo, negli anni Ottanta e Novanta, a chi subì la tragedia di contrarre l’HIV, un cugino del Covid19, e subì l’ostracismo sociale e umano); ci sta insegnando che maltrattare la natura non è proprio un comportamento intelligente (e qui avremmo avuto l’imbarazzo della scelta a chi chiederlo); ci sta insegnando quanto sia vergognoso bistrattare gli anziani (questo sarebbe bastato chiederlo direttamente a loro); ci sta insegnando quanto è brutto essere reclusi senza apparente motivo (bastava domandarlo ai reclusi degli ex CIE); ci sta insegnando, grottescamente, che la libertà è bella (bastava chiederlo a chi vive sotto un regime, tipo in Ungheria o in Russia, o a chi vive oppresso, come in Palestina, dove hanno anche le bombe, e via andare…); ci sta insegnando quanto è mortificante e umiliante essere respinti e indesiderati (e, anche qui, spazio ai testimoni da oltremare!).
Il rischio, però, è che non riuscirà a farci fare il passo successivo: ovvero, a imparare l’empatia. Proprio per questo, sarà accaduto invano.

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Autore: Giulio Gasperini

Nato nella Maremma toscana trent'anni fa (ora più, ora meno), studente a Firenze e Roma, adesso operatore sociale ad Aosta. Senza dubbio si può definire un "migrante". Ma solo per passione, perciò fortunato. Al quarto libro di poesie ("Migrando", END Edizioni, 2014), cercare di star fermo il meno possibile: non ha ancora trovato nessun antidoto (ammesso che lo stia cercando) alla sua irrequietudine. In uscita, il libro da lui curato con la collega Tiziana Gagliardi "Stran(i)eri. Storie di alfabetizzazione" (END Edizioni, 2019) che raccoglie l'esperienza dei tre anni della Scuola di italiano DoubleTe per richiedenti asilo e profughi di Aosta.

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