Del non ritorno (La maison des Esclaves)

Una poesia mia, scritta sui ricordi della mia visita all’isola di Gorée, in Senegal, e alla vista, emozionante e squassante, della Porta del non ritorno, nella Maison des Esclaves.

 

Una porta – uno squarcio nel buio di

una roccia – un lampo di azzurro che

mi accartoccia. Dà le vertigini quest’

aria che trascorre, senza mai porsi

problemi di trasporre il mio volto e

quello di chissà chi altro. È il buio

sordo di un tempo che non conosce

più stagione – il buio che accoglie e

fascia un uomo che cammina – ferisce

la parete liquida, una luce feroce che

smarrisce il mio corpo nel racconto

di un destino comune e veloce. Da qui

si parte e non si torna – si sale spinti

su tavole sparse – si spezza il tempo

futuro che non si ricompone sulla mia

lingua rozza. E spruzza la montagna

quando rompe le acque e ha il vento

in poppa – chissà dove approda. Io

depongo le mie ossa in questa casa

lascio il sangue al vento – si miscela

con la bava del mare indifferente.

Se è lui a portarmi là, saprà anche

che io – arpionato – sono rimasto qua.

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Stromboli, un’isola

Un’isola è un luogo fantastico, ma ciò che accade nell’isola è destino non nel senso che vi accade o deve accadervi, ma nel senso che ha significato e che il suo significato è scatenato appunto dalla struttura dell’isola” (Giorgio Manganelli, Introduzione a “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson).

Stromboli.

Iddu negligente attende il tempo

assente – che conosce se stesso

e perde il senso della corsa, di

essere altro che a sé aderente.

Mi regalasti una notte di festa e

fuoco – quello che scivola sotto-

pelle e assedia corpi e membra

sciolte. Il mare assedia e confina

la tua ombra ti squaderna e piano

scontorna – se la sera avanza e

dopone i colori nel fuoco che

sforna. La partenza è un’evasione –

la fine di un miraggio d’amore.

L’isola resta – una curva di roccia –

la Sciara, una strada d’attesa – la

sabbia divampa e il mare accartoccia

sullo scoglio: l’aliscafo ormai perso

conosce la rotta e in questo dubbio

non mi piego né mi perdo.

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Ricordi di Huruma

La storia di Aisha mi ha fatto tornare alla mente quegli stessi orizzonti. Anche io ho lavorato nell’Africa più reietta e marginale. Nel 2011 per qualche settimana ho fatto volontariato in una delle bidonville più feroci di Nairobi: Huruma, che anche Alex Zanotelli ricorda nel suo illuminante Korogocho: alla scuola dei poveri. Huruma significa, in swahili, “compassione”, “benevolenza”, “misericordia”: l’ironia è alla base della nomenclatura di questi luoghi d’inferno. Huruma è la bidonville che si trova di fronte alla immensa discarica di Korogocho, dove sopravvive un’umanità considerata residuale ma fondamentale per muovere un’economia in cui il capitale pone le sue fondamenta.
Era pericoloso entrare a Huruma, innegabilmente. Il bianco, il mzungu, è odiato, con ragione. Si concentra sul bianco, chiunque sia, la responsabilità della condizione infima a cui si è costretti, in quei luoghi che sono oltre la vergogna e il disprezzo dell’alterità. Uomini donne bambini accatastati in condizioni bestiali, se questo aggettivo limitante può essere utilizzato per rendere un’idea.
Questa è una poesia nata su quei ricordi.

Ricordi d’Huruma.

La terra rossa scava i miei occhi,
macchia i miei denti. La terra
rossa spolpa il mio teschio, mi
sparpaglia le ossa. Come non
sentire? Né ascoltare? Come
non aprirsi alla voce che battezza
al passaggio? Mzungu, mzungu
fin dove si arriva a camminare…
mzungu! Lascio lo sguardo al cielo,
incontro le nubi che non sono già
più come sono, come erano; sempre
diverse, lontane, distanti, nella
polvere che soffia come vento, nel
vento che s’impasta come pioggia.

“Dovunque appendo” di Grace Nichols

Lascio la mia gente, il paese, la casa

per motivi non del tutto certi

Abbandono il sole

e lo splendore del colibrì

e i ratti delle assi del pavimento

così raccolgo il mio io del nuovo mondo

e arrivo in questo posto chiamato Inghilterra.

Dapprima mi sento in un sogno –

il grigio della nebbia

tocco le pareti per vedere se sono vere

sono solide

e la gente che esce dalla metropolitana

come fagioli

e quando alzo la testa vedo Lord Nelson

alto troppo alto per mentire.

E così mando a casa fotografie

tra i piccioni e la neve

e così mi difendo dal freddo

e così a poco a poco

comincio a cambiare i miei modi calypso

non vado mai a trovare nessuno

senza averli avvertiti per tempo

e aspetto il turno in fila

ora dopo tanto tempo

mi sono abituata alla vita inglese

ma ancora mi manca casa mia

a dire la verità

non so più dove appartengo

sì, sono divisa dall’oceano

divisa all’osso

dove appendo le mutante – è lì casa mia.

Grace Nichols

Biotumulo, una storia nera (Čërnaja byl’)

Quella di Černobyl’ è una storia che conosco da tanto. Io avevo neanche due anni quando, il 26 aprile 1986 alle ore 1 e 23 del mattino, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale, a 3 km dalla città di Pryp”jat’ e 18 km da quella di Černobyl’, 16 km a sud del confine con la Bielorussia, esplose un reattore. Fu il più grave incidente nucleare mai verificatosi in una centrale nucleare, e uno dei due incidenti classificati come catastrofici con il livello 7 (massimo della scala INES) dall’IAEA, insieme all’incidente avvenuto nella centrale di Fukushima Dai-ichi nel marzo 2011.

Ma ne sentii parlare pochi anni dopo, in famiglia, quando i miei genitori decisero, assieme ad altre famiglie del paese, di aderire al progetto della sezione locale di Legambiente: accogliere per un mese, d’estate, alcune bambine e bambini, poi diventati ragazze e ragazzi, provenienti dalle zone martoriate dalle radiazioni, per portarli al mare e cercare di limitare i danni provocati alla loro tiroide. Lo stesso progetto fu fortemente voluto da un uomo eccezionale, un pittore miracoloso, Paolo Cimoni, che effettuò anche numerosi viaggi in quelle terre, dai quali trasse molte ispirazioni per i suoi dipinti, come quelli, meravigliosi, che ho usato in questo articolo: uno ritrae una vecchia contadina in attesa in un ambulatorio di campagna, l’altro una slitta che viene trainata e scivola su un deserto di neve.

Sono stati anni interessanti, nei quali trovai un fratello, Sasha, nei quali io non imparai una sola parola di russo e lui solo una manciata di parole in italiano, particolarmente quelle nazional-popolari; ma anni che sicuramente mi hanno aiutato nel cominciare a ragionare sulla necessità di confrontarsi sempre con qualsiasi alterità.

In questa quarantena mi è capitato di leggere Preghiera per Černobyl’ della giornalista e narratrice Premio Nobel Svetlana Aleksievič: testo che spezza il respiro e commuove nel profondo per la sua precisione documentaristica, la sua coralità di testimonianze e voci, la sua precisione di informazione, la sua poetica nascosta nelle parole dei martiri.

Dalla lettura di questo testo è nato questo mio piccolo contributo in versi.

Biotumulo, una storia nera (Čërnaja byl’)
(da “Preghiera per Černobyl’”, di Svetlana Aleksievič)

Gocciolava a terra il latte di una vacca –
nessuno lo raccolse – stillicidio di vita.
Il dosimetro crepitava e si inceppava: curie
e röntgen, misurazioni fin allora ignote.
La nostra storia è sofferenza, un lungo
rosario che diventò rifugio. Mio padre
tornò con in bocca la parola evacuazione.
Nelle gambe nei piedi nelle braccia. Negli
occhi sordi di futuro. Non avemmo più
il nostro angolo a cui tornare – avemmo paura
della pioggia della neve della foresta.
Pensammo di tornare – apparecchiammo la
tavola: del pane, il sale, tanti cucchiai quante
anime abitano nella casa abbandonata. Le
tante fotografie appese alle pareti, sempre
continuammo a pensarci lì – odore di cera.
Davanti alla casa, alla rimessa, lei si inchinò;
si inchinò davanti a ogni singolo albero di melo.
Sotterrammo la foresta, scavammo via terra
e buttammo i frutti sudati del lavoro. Di
trovare riparo dall’atomo, pensammo ingenui,
come ci si protegge dalle schegge delle
granate e degli obici dai proiettili dalle frecce.
Ma l’atomo occupa tutto lo spazio invisibile:
lo mangiammo lo respirammo le bevemmo.
Fummo uniti alla radiazione che scansò i sensi.
Pioggia leggera, in quell’aprile: gocce che
rotolavano come mercurio, mai viste prima.
L’acqua va dove vuole andare: non tiene
conto delle frontiere, delle radiazioni, l’acqua
conosce solo i suoi spazi: dilaga in superficie
e sotto terra, come sangue che sta sottopelle.
Il sangue è il nostro veleno, che ci impedì
l’amore: non sapevo che amare potesse
diventare una colpa. Sono forse colpevole
di amare? Il peccato primordiale, il peccato
di procreare… sopportiamo, come sempre
sopportiamo: più altro, non possiamo fare
perché ancora non esistono le parole. I
bambini allattamo con latte e cesio: tutte
Madonne di Černobyl’, alle quali fu proibita
la tragedia – spazio al solo eroismo, alla
fabbrica della propaganda: menzogne
su menzogne, mentre l’odore di carne marcia
avvelenava le notti e i giorni. I bambini
disegnarono (quante lacrime!) alberi capovolti,
con le radici all’aria, l’acqua dei fiumi rossa e gialla.
Arrivò in volo una cicogna – lei forse non
seppe – la Natura la chiamò – si affacciò uno
scarabeo: gioii di ogni cosa, allora, che ancora
era vita, che ancora continuava e continuò.

Bielorussia

Sarajevo e l’impronta dei morti.

Leggendo I vagabondi della Premio Nobel 2018 Olga Tokarczuk, mi imbatto nel racconto Non aver paura e quello che il giovane serbo, Neobojsa, racconta mi ha folgorato, perché è esattamente quello che ho provato al cospetto di Sarajevo, uno dei miei luoghi di elezione.

“Prima vedi sempre quello che è vivo, bello. Vieni colpito dalla natura, dai bei colori della chiesa locale, dai profumi e così via. Ma più a lungo stai in un luogo, più la bellezza di queste cose sbiadisce. Comincia a chiederti chi ha vissuto prima di te in quella casa e in quella stanza, di chi sono quelle cose, chi ha graffiato la parete sopra il letto e di quale legno sono fatti i davanzali. Quali mani hanno costruito un camino così finemente decorato e hanno asfaltato il cortile. E dove sono ora? Sotto quale forma? Quale mente ha tracciato i sentieri intorno allo stagno e a chi è venuto in mente di piantare un salice sotto la finestra? Tutte le case, i viali, i parchi, i giardini, le strade sono impregnati della morte di altre persone. Quando senti che qualcosa comincia ad attirarti da un’altra parte, ti sembra che sia ora di andarsene via”.

Caffè Sarajevo

Le carte sui muri.

“I capitani di mare in Italia e in Dalmazia, i provveditori veneziani delle isole greche, le persone autorevoli abitanti lungo tutto il Mediterraneo appendevano le carte incorniciate nelle loro dimore scegliendo i punti di maggiore visibilità: allo stesso livello del crocifisso, degli ex voto e dei ritratti di famiglia, in onore del nostro mare e della marineria”.

(Predrag Matvejević, Breviario mediterraneo)

“Alla fine è la parola”.

In queste giornate di attenzione mondiale sui comportamenti feroci di un’Europa sempre più incapace di “restare umana”, ripropongo la mia recensione su ChronicaLibri a una raccolta di poesie splendida: Alla fine è la parola, di Hilde Domin, edita da Del Vecchio Editore: una donna migrante, profuga per necessità, ma anche fortunata nell’aver trovato la maniera di sopravvivere ai dolori delle separazioni.

http://www.chronicalibri.it/2014/01/alla-fine-e-la-parola-che-fa-sopravvivere-agli-esili/

“Diario di Zlata”

Un documento importante, lo sguardo di una bambina sull’assedio di Sarajevo: il “Diario di Zlata” di Zlata Filipović, la cronaca della vita in una città bombardata e perseguitata dai cecchini.

http://www.chronicalibri.it/2013/08/diario-di-zlata-lo-sguardo-di-una-bambina-su-sarajevo/

“Marco Polo. La Via della Seta”.

Oggi su ChronicaLibri ho recensito lo splendido “Marco Polo. La Via della Seta”, storia a fumetti della vita e le avventure di Marco Polo, scritta da Marco Tabilio e edita da BeccoGiallo.

Da non perdere assolutamente! Pagine tra cui sognare!

http://www.chronicalibri.it/2015/08/i-fumetti-e-il-mondo-avventurosi-di-marco-polo/

ROCKALL, quattro nomi per un nulla.

“Non c’è posto che per gli uccelli migratori, che scivolano da un punto all’altro della terra. Il vento soffia e schiaffeggia i destini: una natura che si ribella all’uomo e alla sua scandalosa presenza. Nessuno metterà una bandiera sul mio essere terra indipendente, sulla mia presunzione di innocenza. Sarò solo luogo di terra e vento, colorato dei colori del sole, bagnato da un mare dissente al dominio. La vita sarà indipendente al contatto delle rotte che qua vicine passano, mi tangono, ma mai mi sfiorano decise. Sempre qua sto, assecondando le mie leggi e le mie leggi solamente, senza che nessuno possa impormi niente più di un pensiero di possesso. Ma io resisto”.

“There can be no place more desolate, despairing and awful.”. Così descrisse Rockall Lord Kennet, nel 1971. È una luogo di disastri, Rockall. Le sue coordinate (57°35’48”N 13°41’19”W) bucano la mappa in una specie di non luogo. Affonderebbero nelle acque dell’oceano se non fosse per uno scoglio, la punta di un vulcano, una roccia affiorante di 27 metri di diametro per 570 mq di superficie. Un luogo appena disponibile per l’appoggio degli uccelli. Per una precaria baracca di legno, se ci fosse mai bisogno dell’umanità perfino qua sopra. Anche se, in effetti, qualcheduno ci è arrivato, tempo fa. Qualcheduno ha preteso di conquistarla, di dirla propria, come se fosse una sciocca scommessa, o la pretesa dell’ennesima proprietà: negli anni Cinquanta la Gran Bretagna ha il terrore che la Russia possa usarlo come punto di osservazione per una supposta guerra nucleare e così decide di occuparla. Nel 1955 manda un contingente di tre uomini guidati da Desmond Scott, tenente della Royal Navy. Gli uomini innalzarono la Union Jack e cementarono una targa: “Con l’autorità di Sua Maestà la Regina Elisabetta II, per grazia di Dio del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e dei suoi altri regni e territori, la Regina, Capo del Commonwealth, Difensore della Fede, ecc, ecc, ecc e in conformità con le istruzioni di Sua Maestà in data 14.9.55 un atterraggio è stato effettuato oggi su questa isola di Rockall. La bandiera dell’Unione è stata issata e il possesso dell’isola è stato preso in nome di Sua Maestà. 18 settembre 1955.” Nel 1972, in seguito, l’Isle of Rockall Act sancì unilateralmente l’annessione dello scoglio alla Scozia, e in particolare alla contea di Inverness. Ma alla fine, ratificando la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, del 1982, anche il Regno Unito ha dovuto fare un leggero passo indietro: “Gli scogli che non possono sostenere l’abitazione umana o la vita economica della loro possedere né la zona economica esclusiva o piattaforma continentale”.

Sempre con l’autorità si crede di potersi appropriare dei luoghi. Ma Rockall è diverso; prima di tutto perché è più simile a un non-luogo. E poi perché nonostante rischi di essere un non-luogo ha ben quattro nomi: Rockalldrangur in islandese, Rocal o Rocabarraigh in irlandese, Sgeir Rocail in gaelico scozzese, Rockall o Rokkurin in faroese. Come quattro sono le nazioni che si contendono questa roccia scoscesa, inospitale, totalmente inutile se non alla natura. Le onde ci si infrangono addosso, spezzando le linee del masso, sbriciolandone i fianchi lentamente. È una “roccia che ruggisce”, come significa il suo nome in gaelico scozzese. E il ruggito è l’urlo del vento e il fragore del mare che in pieno Oceano Atlantico non hanno limiti né barriere. Sprofondato nel mare più aperto, distante da ogni altra terra nota: 301 chilometri dall’Isola scozzese di Soay e 424 chilometri dal Donegal irlandese. Terra persino di romanzi e di storie al limite della fantascienza, come quella descritta da T. H. White in The Master, nella quale due ragazzini, Judy e Nicky, assieme al loro cane, naufragano sullo scoglio dove trovano un uomo misterioso che progetta la conquista del mondo.

Rockall è un luogo di disastri, come se fosse complice del destino o di un ben più feroce caso. Naufragi su naufragi si sono sommati vicino alle sue scoscese rocce, senza offrire nessun aiuto. Sfugge il conto, anche perché la zona è come fosse minata, con altri scogli e rocce, come l’Hasselwood Rock appena affiorante sotto il pelo della schiuma del mare, a formare un percorso a ostacoli micidiale. 250 furono i morti nel naufragio di un mercantile spagnolo, diretto a New York, che qui si incaglia il 22 agosto, più o meno dove, un secolo dopo, affonderà la Leonidas, una nave oceanografica. Sarà invece il brigantino Helen of Dundee, partito alla volte del Québec, nel 1824, a dare tutto il nome alla zona, naufragando in quella che poi è stata battezzata come Helena’s Reef. Il racconto della tragedia dà i brividi: “The crew left most of the passengers to drown, including seven women and six children”. E poi la grandissima sciagura, quella che riguarda, come sempre, gli emigranti, i poveri che cercano un futuro migliore in un altrove improbabile, che spesso mai arriva: è il 1904 quando la SS Norge, nave di 3318 tonnellate, diretta da Copenaghen a New York, affonda, portandosi con sé, nell’ignoto dell’oceano e della memoria, 635 persone, sulle 795 a bordo; 240 erano bambini e 225 norvegesi; perché il dramma dell’emigrazione ha sempre riguardato un po’ tutti, nessun escluso. Anche la Seconda guerra mondiale ha lasciato le sue tracce, pur così lontano dai campi di battaglia: ha seppellito lì vicino due bombe, mai esplose, che ancora giacciono laggiù, come ricordo dell’assurda pretesa umana di dominio estremo.

Fonti: T. H. White, The Master: An Adventure Story, 1957; G. S. Holland, R. A.Gardiner, The First Map of Rockall, in The Geographic Journal, v. 141, n. 1 (March 1975); Owen Bowcott, Who owns Rockall? A history of legal and diplomatic wrangles, in TheGuardian.com, 30 maggio 2013; http://www.rockallsolo.com/index.html.

ISTANBUL, le mille e una notte che furono…

Su IlGiunco.net, in una prima e in una seconda puntata, il mio reportage da Istanbul.

Non perdetevelo!

http://www.ilgiunco.net/2015/07/05/capo-nord-instambul-le-mille-e-una-notte-che-furono-parte-1/

http://www.ilgiunco.net/2015/07/12/capo-nord-instambul-le-mille-e-una-notte-che-furono-parte-2/

“Istanbul è un ponte tra i mondi”

Oggi su ChronicaLibri ho recensito “Istanbul è un ponte tra i mondi”, di Michele Monina, edito da Laurana Editore, penultima puntata di un tour, battezzato “Europe”, che ha portato l’autore in dodici capitali europee in dodici mesi.

http://www.chronicalibri.it/2015/07/viaggio-istanbul-scoperta-luoghi-comuni/

Hay-on-Wye, libri come fiori

“Da qua non mi muovo. Tutt’attorno c’è l’azzurro cielo, il verde erba, il grigio delle mura salde di case e stanze, il bianco opaco delle pecore Llanwenog che solo qui si vedono. E poi tanti altri colori, un caleidoscopio: non fiori, ma costole di libri. A migliaia. A colorarmi l’orizzonte e persino lo spazio un po’ lontano, oltre quei ponti di pietra che con estrema calma guadano il Wye, diretto chissà dove”.

Alle coordinate 52°04’48”N 3°07’48”W c’è vicinissimo un confine. Quello tra Galles e Inghilterra. Nella Contea di Powys, a un tiro di schioppo dalle brughiere inglesi, ci si imbatte in Hay-on-Wye, che in gaelico diventa Y Gelli: un paesino di altalenanti 1500 abitanti, definita “Woodstock of the mind” da nientemeno che Bill Clinton. La caratteristica del posto, ovviamente, sono proprio i libri: le librerie, piuttosto. Ce ne sono ben 40. Per un paese come il nostro in eterna carenza di lettori e librerie è un numero che dà il capogiro.

I libri insegnano sempre, anche quando non si aprono. Alle più tradizionali librerie, con scaffali e magari poltrone dove sedersi, sorseggiando un tè e sfogliando l’ultimo libro uscito, si affiancano le librerie più “di frontiera”, quelle con mensole improvvisate e provvisorie, con i libri accatastati distrattamente in un angolo, con un’intera collettività a farsene garanti. Ma ecco che una delle più importanti, tra tutte queste librerie, o almeno quella che ne diventa l’emblema e il prototipo, è la Honesty Bookshop, nei giardini del castello: scaffali di libri aperti all’aria e al tocco, disponibili a esser presi sfogliati letti e comprati. Al fondo, una cassettina, tipo postale, con sopra scritto, a mano: “Money. Please, pay here”. Due frecce disegnate col gesso bianco; e basta. Senza che nessuno controlli o vigili. Perché non si può rubare un libro. Nessuna competizione, in paese; nessuno scontro. Promuovere il libro è un dovere, un obbligo morale, un bisogno inevitabile di coscienza. Molti remainders, volumi antichissimi, edizioni introvabili. Il paradiso di chi ama la lettura vintage e passerebbe la vita a frugare scartabellare curiosare rovistare tra vecchie pagine e copertine ingiallite. Come me, insomma, che di queste cose ne ho fatto un destino.

Non poteva, in questo contesto, non nascere un festival; ogni maggio, centinaia di migliaia di persone (sui 500.000) accorrono nelle viuzze di Hay-on-Wye, solamente per i libri. Prima edizione, 1988. Adesso addirittura patrocinata da The Guardian. L’Hay Festival, che ha un sito ricchissimo, un’organizzazione tentacolare, una partecipazione commovente. Tutti dettagli che fanno impallidire i nostri inutilmente chicchissimi festival. “For 10 days in May, Hay is full of stories, ideas, laughter and music”. E libri, ovviamente, il terreno fertile per tutto il resto: non serve molto altro.

Ma Hay-on-Wye ha anche un re. Un re culturale, diciamo, che non ha nulla a che vedere con potere e pretese di ereditarietà. Si è auto-incoronato tale, qualche anno fa, nel 1977, il fondatore morale di questo sogno che sul mappamondo ha nome Hay-on-Wye: Richard Booth. Proclamò Hay-on-Wye principato autonomo, addobbandosi persino di tutto punto: corona (di cartone), scettro (di ferro, magari), mantella (di finto ermellino). Trovata pubblicitaria, magari, ma che sortì nel suo effetto di convogliare l’attenzione di parecchio mondo in questo piccolo borgo poco lontano dal parco di Brecon Beacons. Troppo facile a definirsi eccentrico (ma sicuramente lo fu), nel 1961, a 23 anni, Booth aprì il primo negozio di libri, in una caserma dei pompieri dismessa, e decise di convincere altri suoi concittadini e amici a fare altrettanto. Verrebbe da dire che Booth ha vanificato ogni regola di buonsenso sul libero mercato e la competitività, però probabilmente dei soldi a Booth non fregava nulla, e non c’è stato modo migliore per dimostrarlo.

Dall’altra parte del mondo c’è Timbuctu, sede della più antica (ed enorme) biblioteca islamica del mondo. Le due città sono gemellate, senza pregiudizi né paranoie. Potere della cultura. Dentro Hay-on-Wye ci sono librerie per tutti i gusti e i sapori: Stella & Rose’s Books, luogo di caccia per volumi rari e illustrati per bambini; oppure Hay Cinema Bookshop con gli scaffali all’aria e al cielo; o ancora Francis Edwards, aperta ben dal 1885! Chi ama i gialli e i noir deve puntare inevitabilmente su Murder and Mayhem mentre chi ama la natura e la botanica non può evitare C. Arden Bookseller. Infine, la poesia, di ovunque, in ogni lingua, da ogni parte di mondo, che satura The Poetry Bookshop.

Hay-on-Wye rappresenta forse l’idea piuttosto rivoluzionaria che un libro appartenga a tutti; e che tutti possano usare un libro. Perché la conoscenza è alla portata di tutti e che tutti ne possono usufruire anche in un parco, immersi nell’erba di un giardino, camminando lungo una strada fiancheggiata da negozi, oppure sfogliandolo dentro una libreria, che non è un supermercato di titoli inutili ma un luogo privilegiato di conoscenze e di storie, di parole e di geografie, di contatti e di scambi di idee e opinioni. Ecco tutto qua il potere salvifico della cultura. Come in un pellegrinaggio, a Hay-on-Wye.

Fonti: Annamaria Giannetto Pini, Hay-on-Wye, Galles: la città dei libri usati, in ViaggiNelMondo.net, 10 febbraio 2015; Sara Merlino, Vieni a prendere un tè da Honesty Bookshop: la libreria a cielo aperto, in eHabitat.it, 8 maggio 2015; La Redazione, 1800 abitanti e ben 40 librerie. La storia di un luogo unico al mondo, in IlLibraio.it, 10 maggio 2015; Ida Bini, Galles: a Hay-on-Wye, il paradiso dei libri usati, in Ansa.it, 14 maggio 2015.

VAROSIA, dove il tempo ha avuto paura

“Prendi la tua ombra e scappa. Scappa lontano. Lascia tutto qua, piatti, libri, vestiti. Non importa chiudere le finestre, tanto torneremo presto. Le porte, lasciale pure spalancate all’aria della notte. Cipro è calda, nessuno si raffredderà. Non abbiamo un attimo per guardare indietro, per serrare i nostri luoghi in difesa di un domani che chissà quando verrà. Lascia pure tutto qua, il piatto, il bicchiere riempito di vino, il cucchiaino di zucchero a sciogliersi nel caffè. Quegli armadi pieni di vestiti, queste spiagge, lontane, che così tanti turisti richiamavano da ogni altro altrove. Lascia ogni tuo luogo, ogni tuo ricordo deposto negli angoli delle stanze, su quei vetri ai quali aspettavi il suo ritorno. Lascia la porta aperta agli uccelli che migrano, che da qui passano e poi, chissà quando, ritornano”.

A 35°07′09″N 33°57′10″E ci troviamo sull’isola di Cipro, terra mitica e leggendaria, sulle cui coste la leggenda narra che sia nata Afrodite, la dea della bellezza. E Cipro di bellezza ne possiede tanta, orgogliosamente. Una bellezza di arte e di storia, di incontri e di crocevia, di natura e di paesaggi. Come Famagosta, l’eroica città che fu più volte assediata e conquistata, che porta ancora oggi le tracce dei suoi tanti passati e dove la leggenda vuole che Shakespeare ambientasse il suo “Otello” tanto famoso. Ma Famagosta è anche una significativa prova, evidente, del dramma di Cipro; quello che dagli anni ’70, e in particolare dal 1974, portò a una divisione dell’isola, a una separazione che ancora ferisce e taglia un popolo e una terra. Nel 1974 l’esercito turco assaltò l’isola, la conquistò, spingendosi fino alla Linea Attila, che ancora oggi è il confine interno, e la occupò, tracciando una linea immaginaria tra due comunità e due territori uniti. Persino la capitale, chiamata a seconda da chi la pronuncia Lefkosia o Lefkoşa, è tutt’ora l’unica capitale al mondo divisa in due da un confine, da un’assurda linea tracciata chissà con quali criteri, con un check point da attraversare per passare da una parte all’altra. Tra le due parti, una striscia di nessuno, una terra che non conosce proprietario ma che è pattugliata dalle Forze peacekeeping dell’ONU.
È alla periferia di Famagosta, tuttavia, che sta, abbandonata e sola, la prova più tangibile, la testimonianza più angosciosa, di questo dramma di cui non si profila soluzione: Varosia. Varosia è il quartiere dei greco-ciprioti di Famagosta. Piuttosto, fu. Oggi quel che rimane è un’agghiacciante città fantasma, chiusa in metri di rete e filo spinato, soffocata da piante e fichi d’India, che si sono impadroniti di quelli che una volta furono cortili e giardini, stanza e salotti, cucine gonfie di odori e camere da letto di sogni notturni. È anche un lungomare spettrale, popolato da alberghi svettanti ma vuoti, ciechi di vita e di turismo: pensare che, prima degli anni ’70, quelle spiagge erano tra le più ricercate dell’isola, meta di un turismo ricco e spendaccione. Sono ecomostri, e lo erano anche prima, ma oggi, lasciati alla dissoluzione progressiva degli agenti atmosferici, con persino le macchine ancora parcheggiate nei garage sotterranei, sono ancora più spettrali e lugubri. Anche in quei giorni del 1974, ignari di ciò che si sarebbe abbattuto sull’isola di lì a poco, i turisti popolavano le stanze lussuose di questi alberghi, formicolando sulle spiagge e sguazzando nelle acque di uno splendido Mediterraneo. Alla notizia dell’invasione, però, non ci fu tempo neanche per pensare: tutti in fuga, uno dietro all’altro, senza il tempo di salire nelle proprie stanze per prendere l’indispensabile; una fuga rovinosa in ciabatte, a piedi, lasciando colazioni nei piatti, le macchine parcheggiate, gli ombrelloni e le sdraio aperte sull’arenile. Tutto, oggi, è ancora lì. Le lenzuola nei letti, gli avanzi delle colazioni nei piatti, i fiori secchi nei vasi, qualche ombrellone ancora a fare ombra su una spiaggia deserta, le chiavi delle stanze sui banconi, il registro delle presenze aperto a una data oramai storica, l’agosto del 1974. È così, in queste condizioni, è tutto il resto del quartiere di Varosia: completamente disabitata, ogni casa deserta e ferma, immobile, in un tempo che ha avuto paura e non è più tornato, non ha più ricominciato a muoversi.
Varosia è testimonianza feroce di quel che possono fare l’incapacità e la stupidità umane. La Storia racconta, infatti, che fu un generale inglese, presa una cartina di Cipro, a tracciare una linea verde, per segnare le due zone di influenza sull’isola, tra turchi e greci. Varosia non era stata compresa nella parte turca, sarebbe dovuta rimanere ai greco-ciprioti che lì lavoravano negli spettacoli e nei lussuosi alberghi. Ma i turchi non rispettarono gli accordi e in quel 1974 si affondarono ben oltre la linea verde. Gli abitanti di Varosia, insieme ai turisti, alla notizia devastante dell’avanzata dell’esercito turco, se ne andarono precipitosamente, abbandonando le loro case. Si dice che le lampadine siano rimaste accese per settimane, fino a esaurirsi; si dice che tutt’oggi ci siano i tavoli lasciati apparecchiati per una fuga così inattesa e irreversibile. Oggi, è un pezzo di Cipro ancora deserto, lasciato così forse come monito forse come ostaggio forse come rimorso. Raccontarlo è ben diverso dal vederlo: la vista di queste case getta un’ombra di profonda angoscia, di ansia, di precarietà esistenziale. Tutto, a Varosia, è fermo a quarant’anni fa, anche se si può soltanto gettare una svelta occhiata per cogliere qualcosa. Minacciosi cartelli, infatti, ribadiscono (e un po’ spaventano) che nella zona è assolutamente proibito entrare e che non si possono scattare foto. Off limits, per ragioni che forse si basano solo su un senso di colpa difficile da emendare.
Ma qualcheduno è tornato, su quelle spiagge, rispettando un antico patto istintivo e cromosomico. Sono tornate le tartarughe. Loro, almeno, tornano sull’arenile, depongono le uova e ripartono, confidando che il caso sia clemente coi loro figli; i quali, a loro volta, torneranno sulla stessa spiaggia a consegnare al futuro i loro cuccioli. Una parte di mondo, insomma, perduta dagli uomini ma riconquistata dalla natura e dalle sue antiche leggi.

Varosia

Fonti: Lara Gusatto, Il brivido caldo delle ghost-town, in LaRepubblica.it Viaggi, 3 febbraio 2011; Richard Hooper and Vibeke Venema, Varosha: The abandoned tourist resort, in BBC News Magazine, 14 gennaio 2014; Alessio Grosso, Appello ai Turchi per Varosha, la Riccione fantasma di Cipro: salvatela!, in MeteoLive.leonardo.it, 27 febbraio 2014; Vesna Marić, Cipro, Lonely Planet, 2015

“La Strega di Baratti”.

Oggi su ChronicaLibri ho recensito “La Strega di Baratti” di Stelio Montomoli, edito da Ouverture Edizioni; un romanzo che cerca di dare un volto e una storia alla misteriosa donna della tomba S64, trovata nella sua sepoltura con cinque chiodi infilati in bocca, uno spinto al posto del cuore e gli altri a tenere inchiodati al suolo i suoi vestiti.

Perché?

http://www.chronicalibri.it/2015/06/strega-baratti-mistero-lungo-secoli/

Camminando Parigi… – IV

Oggi su IlGiunco.net la quarta parte del mio reportage da Parigi, alla scoperta dei marchés aux puces e della moda vintage.

http://www.ilgiunco.net/2015/06/07/capo-nord-parigi-la-romantica-parigi-la-citta-dei-mercatini-delle-pulci-e-della-moda-parte-quattro/

Continua, domenica prossima, con l’ultima puntata!