Recensione: “Chav. Solidarietà coatta”

Oggi, su ChronicaLibri, ho recensito Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter, edito da Edizioni Alegre.

Hunter è un “chav”, ovvero un coatto, termine dispregiativo utilizzato per “disumanizzare un vasto gruppo di persone che reagisce con noncuranza nei confronti di chi ha beneficiato della loro espropriazione”. Una parola, complessa, insomma, utilizzata in maniera feroce e brutale per catalogare e lasciare ai margini. Con Hunter, questa parola si fa ribellione, c’è il tentativo di risemantizzarla e utilizzarla come atto di rivendicazione, per tutti quei corpi sottomessi e lasciati agonizzanti sulle soglie della collettività sociale.

La recensione completa qui.

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Recensione: Antichi demoni nuove divinità

Su ChronicaLibri ho recensito Antichi demoni, nuove divinità, una splendida antologia di narrativa contemporanea tibetana, curata da Tenzin Dickie e edita da O barra O edizioni.

È un Tibet contemporaneo interessante e magnetico; perché non comprende solo la parte mistica e religiosa – forse la più nota e conosciuta, la più inflazionata – ma anche quella di una società che suo malgrado si trova di fronte alle sfide della modernità, del capitalismo sfrenato, della morsa politica; e ne esce ammaccato e stropicciato, ferito e persino un po’ misconosciuto, ma sempre fieramente indomito.

La recensione completa qui.

La lezione del virus.

Una cosa buona questo virus, suo malgrado, la sta facendo. Ci sta mettendo nei panni dell’altro; di tanti altri, contemporaneamente. Ci sta insegnando che 600 euro al mese magari son un po’ pochini (bastava chiedere a chi, per vivere, deve accettare i “tirocini”, senza la dignità di un contratto degno, o le chiamate, o le prestazioni occasionali, o i contratti a venti ore che poi si lavora ugualmente per quanto c’è bisogno e bona al massimo le recuperi); ci sta insegnando che il click day è una schifezza irrispettosa (bastava chiederlo a un cittadino di paese terzo che avesse voluto venire a lavorare qua); ci sta insegnando che i pomodori e le arance non si raccolgono da soli (bastava non voltarsi dall’altra parte quando si sentiva parlare di sfruttamento lavorativo e caporalato); ci sta insegnando che l’amore è quello che si sceglie e non solo quello che ci è imposto dal sangue (bastava andarlo a chiedere a chi si è sempre dovuto amare di nascosto, tipo me, per non fare tanta strada); ci sta insegnando che la scuola non esiste senza corpo (bastava chiederlo a chi insegna nelle classi di 30 studenti, dove a fatica ti ricordi i nomi e cognomi); ci sta insegnando che anche un computer e una connessione decente, una casa e una finestra sono privilegi di classe (bastava chiederlo a un sacco di gente per cui la tecnologia e un alloggio dignitoso erano e restano fantascienza); ci sta insegnando che è orribile additare i contagiati e trattarli da untori (e sarebbe bastato chiederlo, negli anni Ottanta e Novanta, a chi subì la tragedia di contrarre l’HIV, un cugino del Covid19, e subì l’ostracismo sociale e umano); ci sta insegnando che maltrattare la natura non è proprio un comportamento intelligente (e qui avremmo avuto l’imbarazzo della scelta a chi chiederlo); ci sta insegnando quanto sia vergognoso bistrattare gli anziani (questo sarebbe bastato chiederlo direttamente a loro); ci sta insegnando quanto è brutto essere reclusi senza apparente motivo (bastava domandarlo ai reclusi degli ex CIE); ci sta insegnando, grottescamente, che la libertà è bella (bastava chiederlo a chi vive sotto un regime, tipo in Ungheria o in Russia, o a chi vive oppresso, come in Palestina, dove hanno anche le bombe, e via andare…); ci sta insegnando quanto è mortificante e umiliante essere respinti e indesiderati (e, anche qui, spazio ai testimoni da oltremare!).
Il rischio, però, è che non riuscirà a farci fare il passo successivo: ovvero, a imparare l’empatia. Proprio per questo, sarà accaduto invano.

Biotumulo, una storia nera (Čërnaja byl’)

Quella di Černobyl’ è una storia che conosco da tanto. Io avevo neanche due anni quando, il 26 aprile 1986 alle ore 1 e 23 del mattino, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale, a 3 km dalla città di Pryp”jat’ e 18 km da quella di Černobyl’, 16 km a sud del confine con la Bielorussia, esplose un reattore. Fu il più grave incidente nucleare mai verificatosi in una centrale nucleare, e uno dei due incidenti classificati come catastrofici con il livello 7 (massimo della scala INES) dall’IAEA, insieme all’incidente avvenuto nella centrale di Fukushima Dai-ichi nel marzo 2011.

Ma ne sentii parlare pochi anni dopo, in famiglia, quando i miei genitori decisero, assieme ad altre famiglie del paese, di aderire al progetto della sezione locale di Legambiente: accogliere per un mese, d’estate, alcune bambine e bambini, poi diventati ragazze e ragazzi, provenienti dalle zone martoriate dalle radiazioni, per portarli al mare e cercare di limitare i danni provocati alla loro tiroide. Lo stesso progetto fu fortemente voluto da un uomo eccezionale, un pittore miracoloso, Paolo Cimoni, che effettuò anche numerosi viaggi in quelle terre, dai quali trasse molte ispirazioni per i suoi dipinti, come quelli, meravigliosi, che ho usato in questo articolo: uno ritrae una vecchia contadina in attesa in un ambulatorio di campagna, l’altro una slitta che viene trainata e scivola su un deserto di neve.

Sono stati anni interessanti, nei quali trovai un fratello, Sasha, nei quali io non imparai una sola parola di russo e lui solo una manciata di parole in italiano, particolarmente quelle nazional-popolari; ma anni che sicuramente mi hanno aiutato nel cominciare a ragionare sulla necessità di confrontarsi sempre con qualsiasi alterità.

In questa quarantena mi è capitato di leggere Preghiera per Černobyl’ della giornalista e narratrice Premio Nobel Svetlana Aleksievič: testo che spezza il respiro e commuove nel profondo per la sua precisione documentaristica, la sua coralità di testimonianze e voci, la sua precisione di informazione, la sua poetica nascosta nelle parole dei martiri.

Dalla lettura di questo testo è nato questo mio piccolo contributo in versi.

Biotumulo, una storia nera (Čërnaja byl’)
(da “Preghiera per Černobyl’”, di Svetlana Aleksievič)

Gocciolava a terra il latte di una vacca –
nessuno lo raccolse – stillicidio di vita.
Il dosimetro crepitava e si inceppava: curie
e röntgen, misurazioni fin allora ignote.
La nostra storia è sofferenza, un lungo
rosario che diventò rifugio. Mio padre
tornò con in bocca la parola evacuazione.
Nelle gambe nei piedi nelle braccia. Negli
occhi sordi di futuro. Non avemmo più
il nostro angolo a cui tornare – avemmo paura
della pioggia della neve della foresta.
Pensammo di tornare – apparecchiammo la
tavola: del pane, il sale, tanti cucchiai quante
anime abitano nella casa abbandonata. Le
tante fotografie appese alle pareti, sempre
continuammo a pensarci lì – odore di cera.
Davanti alla casa, alla rimessa, lei si inchinò;
si inchinò davanti a ogni singolo albero di melo.
Sotterrammo la foresta, scavammo via terra
e buttammo i frutti sudati del lavoro. Di
trovare riparo dall’atomo, pensammo ingenui,
come ci si protegge dalle schegge delle
granate e degli obici dai proiettili dalle frecce.
Ma l’atomo occupa tutto lo spazio invisibile:
lo mangiammo lo respirammo le bevemmo.
Fummo uniti alla radiazione che scansò i sensi.
Pioggia leggera, in quell’aprile: gocce che
rotolavano come mercurio, mai viste prima.
L’acqua va dove vuole andare: non tiene
conto delle frontiere, delle radiazioni, l’acqua
conosce solo i suoi spazi: dilaga in superficie
e sotto terra, come sangue che sta sottopelle.
Il sangue è il nostro veleno, che ci impedì
l’amore: non sapevo che amare potesse
diventare una colpa. Sono forse colpevole
di amare? Il peccato primordiale, il peccato
di procreare… sopportiamo, come sempre
sopportiamo: più altro, non possiamo fare
perché ancora non esistono le parole. I
bambini allattamo con latte e cesio: tutte
Madonne di Černobyl’, alle quali fu proibita
la tragedia – spazio al solo eroismo, alla
fabbrica della propaganda: menzogne
su menzogne, mentre l’odore di carne marcia
avvelenava le notti e i giorni. I bambini
disegnarono (quante lacrime!) alberi capovolti,
con le radici all’aria, l’acqua dei fiumi rossa e gialla.
Arrivò in volo una cicogna – lei forse non
seppe – la Natura la chiamò – si affacciò uno
scarabeo: gioii di ogni cosa, allora, che ancora
era vita, che ancora continuava e continuò.

Bielorussia

La patria.

Lo lessi anni fa; forse troppo giovane. Il ricordo del romanzo si confuse con quello di Audrey Hepburn e del film.

Ma c’è un abisso tra i due: entrambi meravigliosi, ma ognuno a modo suo.

La narrazione del romanzo di Truman Capote è inarrestabile, meravigliosa, mozza il fiato ed è una scossa sottopelle, tellurica, incontenibile. La Holly Golightly del romanzo è una forza della natura, un concentrato di inarrestabile potenza; una divinità incontenibile.

Questo romanzo mi ha coinvolto e commesso. Una perla rara, una narrazione magnificente. L’ho riscoperto, fortunatamente. Da adesso, non me ne separerò mai.

“La patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando”.
Holly Golightly