L’uno si chiama Sanna, l’alto Mohmmed. Vent’anni ciascuno, entrambi del Gambia. Uno in Italia da cinque anni, l’altro da otto mesi. Si conoscono all’ospedale di Sondalo, reparto di broncopneumologia. Comune la diagnosi: tubercolosi ossea. Prospettive agghiaccianti: la paralisi completa altamente probabile, come nel più perfetto gioco crudele del caso.
Quando arriviamo nella camera Mohammed e Sanna non li conosciamo. Siamo venuti a trovare un altro paziente. Mohammed sta nel letto, sdraiato, con un enorme collare su cui appoggia la testa piccola, piena di ricci neri. Guarda il soffitto (non può fare altrimenti), si volta incredulo quando gli domando il nome e da dove venga, come fosse stupito che qualcheduno possa mai interessarsi a lui.
Poi si solleva, si siede sul letto, un po’ storto, con l’ingombro del collare e la mascherina che un po’ tutti, qua dentro, indossano e che ingabbia la faccia, dal mento al naso, lasciando scoperti solo gli occhi. E i suoi sono sfuggenti. Ha mani piccolissime che si stringono l’una nell’altra, incastrandosi tra le ginocchia. Pesa 30 chili, in piedi non fa quasi neanche più ombra. Rimane sempre un po’ in disparte, ascolta, guarda, osserva che pare un animale da caccia, in fuga da un predatore. Se ne sta sul bordo del letto come se non volesse dar fastidio neanche alle lenzuola. A un certo punto afferra un libro dal comodino, l’unico che hanno e arrivato lì chissà come, e inizia a leggere una pagina a caso. Segue col dito lo scorrere delle sillabe, articolando suoni faticosi, spesso sbagliati, un po’ anchilosati sulla lingua. Ma ci prova. E Sanna gli va vicino, segue con lui lo scorrere delle parole, lo aiuta là dove l’altro si incespica ed esita. Insieme, affrontano un’altra difficoltà.
Poi se ne va in bagno, Mohammed. Esce mentre noi stiamo andando al bar a comprare un panino. Agitato, ci chiede se ce ne stiamo già andando, e magari pensa che neanche l’avremmo salutato.
Ma usciamo solo per comprare qualcosa al bar dell’ospedale, torniamo tra cinque minuti. Sembra rassicurato e si rimette a sedere sul bordo del letto, accavallando gambe che sembrano cannucce. Tornando, portiamo in regalo tre bottigliette di Coca Cola, perché ne vanno matti, e Mohammed è ancora lì sul letto, ingabbiato nel collare e con la mascherina sulla faccia. Sempre dimesso, in disparte, restio persino al contatto visivo ma con un po’ più di luce negli occhi. Quando gli rivolgiamo le domande, risponde esitando in un inglese molto chiaro. Questa è la sua storia: Mohammed arriva dal Gambia in Italia, seguendo le rotte e le speranza di tutt*. Capita a Napoli, secondo il consueto schema del caso, in un luogo di cui non si ricorda il nome. In realtà, Mohammed non si ricorda molte cose. Sa che è stato in Commissione, secondo il solito rituale dell’interrogatorio per accertare e certificare un’esistenza, ma non sa cosa ne sia stato della sua risposta: se i burocrati italiani abbiano detto no o sì. Perché nel frattempo Mohammed se n’è andato a trovare uno zio in Germania. E quando è tornato, si è trovato fuori dall’accoglienza: niente più branda, niente più pasti, niente più pocket money. E allora, secondo l’ennesimo schema imposto in una vita che di routine non ha nulla Mohammed se ne va al nord, a Milano. E dorme fuori, nei dintorni della stazione. Finché un giorno si sente male, inizia un dolore lancinante, furioso al collo; che cede. La testa pende da una parte, non riesce più a star dritta. Come se fosse sistemata sopra una pila di libri traballanti. Un altro ragazzo vede Mohammed in difficoltà, capisce che non sta bene, che ha bisogno di aiuto. E Mohammed viene ricoverato in ospedale. Diagnosi: TBC ossea, ovvero quando il bacillo di Koch, dal polmone o dalla pleura, si sposta nelle zone osteoarticolari e le divora, mangiandole senza pietà. E Mohammed viene mandato all’ospedale di Sondalo, in mezzo a una stretta vallata: dalla finestra della camera si prende sole tutto il giorno, anche d’inverno. Davanti agli occhi, una linea spezzettata che chiude l’orizzonte e nasconde la vista. In basso, il paesino di Sondalo che dagli anni Trenta si è visto costruire alle spalle un ospedale grandioso, un modello mondiale per la cura della TBC. Ma non so se Mohammed abbia la forza di apprezzare tutto questo. Di forza ne ha, altrimenti non sarebbe qua, a testimoniare con la sua presenza che, come diceva Frida Kahlo, si può sopportare molto più di quello che pensiamo. Ma Mohammed è solo. Solo al mondo. Senza nessun conforto e nessuna presenza che possa supportarlo, compartire i suoi dubbi e i suoi timori, sorreggerlo e semplicemente rivolgergli la parola.
Io mi sprofondo nella sua solitudine, me la immagino assediarlo e romperlo dentro, facendogli, istante dopo istante, perdere il fiato, mozzargli il respiro. Me la immagino perché creo d’averla provata anche io; ma poi mi riscuoto e capisco che non son minimamente comparabili. La sua solitudine è forse incolmabile, inesauribile, perché il mondo attorno a lui è oramai nervoso e furioso, dimentico di ogni senso d’umanità. Lo lascio lì, Mohammed, in quella camera: chissà quanti altri mesi ancora dovrà passare lì dentro; chissà cosa gli accadrà quando uscirà.
L’infermiera preme il pulsante e la serratura della porta si sblocca; appena fuori, mi strappo la mascherina dalla faccia e torno a respirare l’aria di montagna a bocca piena.