Il migrante è il nostro specchio.
Il migrante riflette le nostre meschinità, le nostre bassezze, i nostri più indicibili segreti, le nostre imbarazzanti perversioni, che soffochiamo prepotentemente da tempo. Il migrante ci fa sentire disarmati, completamente indifesi alla vulnerabilità dell’esistere e dell’esistenza.
Il migrante è il nostro specchio perché ci spoglia, ci lascia nudi all’assalto del caso, al dramma dell’inesorabilità della sorte. Il migrante ci fa ricordare, con orrore, che quel destino potrebbe colpire tutti, anche noi, e che ben presto potremmo trovarci a dover combattere di nuovo per la pura sopravvivenza, come già accaduto. Il migrante è il nostro specchio perché ci paralizza nel terrore della sofferenza, del dolore cupo e feroce, ci ricorda che il corpo può soffrire, straziato e schiantato da sadismi ed efferatezze spietate.
Il migrante è il nostro specchio perché siamo terrorizzati, oramai, della povertà, della mancanza di possesso, del terrore di affrontare il potere (come lui, il migrante, è invece condannato a fare costantemente). Il migrante è il nostro specchio perché negli occhi c’è tangibile il senso profondo di cosa significa stare aderente e aggrappato alla vita, nel senso più compiuto e furioso, un richiamo prepotente che non si può, e non si deve, fermare davanti a nessun ostacolo.
Abbiamo seppellito il nostro disagio, il terrore della nostra fragilità sotto tonnellate di benessere, negli iPhone, nelle macchine sempre più perfette, nell’illusione di possedere tutto il mondo possedendo un potente passaporto, fingendo di dimenticarci la nostra fugacità sdraiati sulla sabbia o ballanti in una discoteca. Ci affacciamo alle rive del Mediterraneo occupandoci solo della nostra tintarella e proviamo un’irritazione indecente nei confronti di chi ci ricorda che quel mare è un’enorme fossa comune. Il migrante ci ricorda che il nostro benessere significa il malessere di altri, in un perverso sistema di vasi comunicanti che ci ha narcotizzato e, persino, autoassolti; perché, se qualcheduno deve stare necessariamente male, meglio lui di me.
Sicché il migrante ci spaventa solo perché ci ricorda che siamo meschini, che abbiamo soffocato la nostra capacità di com-patire e di indignarci perché era più comodo e facile anestetizzarsi e far finta che, alla fine, tutti sono uguali e sono tutti la stessa merda.
Per questo, respingiamo il migrante: non lo vogliamo proprio vedere, muoia pure lontano, ché se non lo si vede vuol dire che non esiste. Come la polvere sotto il tappeto. Come la testa dello struzzo sottoterra. Come il nostro vivere borghese.
Quello che non sappiamo (e che non intendiamo volontariamente sapere) non ha diritto di parola né, tantomeno, d’esistenza. Lo classifichiamo “migrante” per non pensarlo essere umano, per non tenere conto delle narrazioni di vita, di presenza, dei talenti, dei meriti, delle competenze, delle abilità, delle vocazioni, delle abilità, dei prodigi.
Ma l’esistente (quella sana, quella che sa di non possedere nulla e di aver tutto da guadagnare) sobbolle e fermenta e avrà la sana forza tellurica di un’eruzione. Incontenibile.
(Immagine di Alessandro Coppola)