La sua raccolta poetica Yahya Hassan ha venduto nella sola Danimarca più di 120.000 copie, risultato miracoloso per un’opera di poesia. Apolide palestinese residente a Copenaghen, nato nel 1995 e morto poche settimane fa, Yahya Hassan è poeta feroce e crudo, contrario a qualsiasi netiquette e mediazione: una scrittura dura che contesta tutto, dalla sua religione strumentalizzata, al senso di alienazione del profugo, alle forme statali dell’accoglienza e dell’integrazione. #Avocealta oggi la sua durissima Finirai all’inferno fratello.
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Un grande artista.
“Un grande artista, mesdames, non è mai povero”.
Karen Blixen, Il pranzo di Babette
ROCKALL, quattro nomi per un nulla.
“Non c’è posto che per gli uccelli migratori, che scivolano da un punto all’altro della terra. Il vento soffia e schiaffeggia i destini: una natura che si ribella all’uomo e alla sua scandalosa presenza. Nessuno metterà una bandiera sul mio essere terra indipendente, sulla mia presunzione di innocenza. Sarò solo luogo di terra e vento, colorato dei colori del sole, bagnato da un mare dissente al dominio. La vita sarà indipendente al contatto delle rotte che qua vicine passano, mi tangono, ma mai mi sfiorano decise. Sempre qua sto, assecondando le mie leggi e le mie leggi solamente, senza che nessuno possa impormi niente più di un pensiero di possesso. Ma io resisto”.
“There can be no place more desolate, despairing and awful.”. Così descrisse Rockall Lord Kennet, nel 1971. È una luogo di disastri, Rockall. Le sue coordinate (57°35’48”N 13°41’19”W) bucano la mappa in una specie di non luogo. Affonderebbero nelle acque dell’oceano se non fosse per uno scoglio, la punta di un vulcano, una roccia affiorante di 27 metri di diametro per 570 mq di superficie. Un luogo appena disponibile per l’appoggio degli uccelli. Per una precaria baracca di legno, se ci fosse mai bisogno dell’umanità perfino qua sopra. Anche se, in effetti, qualcheduno ci è arrivato, tempo fa. Qualcheduno ha preteso di conquistarla, di dirla propria, come se fosse una sciocca scommessa, o la pretesa dell’ennesima proprietà: negli anni Cinquanta la Gran Bretagna ha il terrore che la Russia possa usarlo come punto di osservazione per una supposta guerra nucleare e così decide di occuparla. Nel 1955 manda un contingente di tre uomini guidati da Desmond Scott, tenente della Royal Navy. Gli uomini innalzarono la Union Jack e cementarono una targa: “Con l’autorità di Sua Maestà la Regina Elisabetta II, per grazia di Dio del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e dei suoi altri regni e territori, la Regina, Capo del Commonwealth, Difensore della Fede, ecc, ecc, ecc e in conformità con le istruzioni di Sua Maestà in data 14.9.55 un atterraggio è stato effettuato oggi su questa isola di Rockall. La bandiera dell’Unione è stata issata e il possesso dell’isola è stato preso in nome di Sua Maestà. 18 settembre 1955.” Nel 1972, in seguito, l’Isle of Rockall Act sancì unilateralmente l’annessione dello scoglio alla Scozia, e in particolare alla contea di Inverness. Ma alla fine, ratificando la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, del 1982, anche il Regno Unito ha dovuto fare un leggero passo indietro: “Gli scogli che non possono sostenere l’abitazione umana o la vita economica della loro possedere né la zona economica esclusiva o piattaforma continentale”.
Sempre con l’autorità si crede di potersi appropriare dei luoghi. Ma Rockall è diverso; prima di tutto perché è più simile a un non-luogo. E poi perché nonostante rischi di essere un non-luogo ha ben quattro nomi: Rockalldrangur in islandese, Rocal o Rocabarraigh in irlandese, Sgeir Rocail in gaelico scozzese, Rockall o Rokkurin in faroese. Come quattro sono le nazioni che si contendono questa roccia scoscesa, inospitale, totalmente inutile se non alla natura. Le onde ci si infrangono addosso, spezzando le linee del masso, sbriciolandone i fianchi lentamente. È una “roccia che ruggisce”, come significa il suo nome in gaelico scozzese. E il ruggito è l’urlo del vento e il fragore del mare che in pieno Oceano Atlantico non hanno limiti né barriere. Sprofondato nel mare più aperto, distante da ogni altra terra nota: 301 chilometri dall’Isola scozzese di Soay e 424 chilometri dal Donegal irlandese. Terra persino di romanzi e di storie al limite della fantascienza, come quella descritta da T. H. White in The Master, nella quale due ragazzini, Judy e Nicky, assieme al loro cane, naufragano sullo scoglio dove trovano un uomo misterioso che progetta la conquista del mondo.
Rockall è un luogo di disastri, come se fosse complice del destino o di un ben più feroce caso. Naufragi su naufragi si sono sommati vicino alle sue scoscese rocce, senza offrire nessun aiuto. Sfugge il conto, anche perché la zona è come fosse minata, con altri scogli e rocce, come l’Hasselwood Rock appena affiorante sotto il pelo della schiuma del mare, a formare un percorso a ostacoli micidiale. 250 furono i morti nel naufragio di un mercantile spagnolo, diretto a New York, che qui si incaglia il 22 agosto, più o meno dove, un secolo dopo, affonderà la Leonidas, una nave oceanografica. Sarà invece il brigantino Helen of Dundee, partito alla volte del Québec, nel 1824, a dare tutto il nome alla zona, naufragando in quella che poi è stata battezzata come Helena’s Reef. Il racconto della tragedia dà i brividi: “The crew left most of the passengers to drown, including seven women and six children”. E poi la grandissima sciagura, quella che riguarda, come sempre, gli emigranti, i poveri che cercano un futuro migliore in un altrove improbabile, che spesso mai arriva: è il 1904 quando la SS Norge, nave di 3318 tonnellate, diretta da Copenaghen a New York, affonda, portandosi con sé, nell’ignoto dell’oceano e della memoria, 635 persone, sulle 795 a bordo; 240 erano bambini e 225 norvegesi; perché il dramma dell’emigrazione ha sempre riguardato un po’ tutti, nessun escluso. Anche la Seconda guerra mondiale ha lasciato le sue tracce, pur così lontano dai campi di battaglia: ha seppellito lì vicino due bombe, mai esplose, che ancora giacciono laggiù, come ricordo dell’assurda pretesa umana di dominio estremo.
Fonti: T. H. White, The Master: An Adventure Story, 1957; G. S. Holland, R. A.Gardiner, The First Map of Rockall, in The Geographic Journal, v. 141, n. 1 (March 1975); Owen Bowcott, Who owns Rockall? A history of legal and diplomatic wrangles, in TheGuardian.com, 30 maggio 2013; http://www.rockallsolo.com/index.html.
“Lettere dall’Africa”.
Su ChronicaLibri ho recensito le “Lettere dall’Africa” di Karen Blixen (Adelphi): uno dei più bei libri mai letti.
http://chronica-libri.blogspot.it/2011/06/lettere-dallafrica-1914-1931-se-lafrica.html
La mia Danimarca, alla scoperta di Karen Blixen. – II
Ecco la seconda parte della mia esplorazione di Rungsted, residenza della divina Karen Blixen.
La mia Danimarca, alla scoperta di Karen Blixen. – I
La Danimarca, per me, è sempre stata legata al nome di Karen Blixen, donna dalla vita magica e dalla scrittura ipnotica.
Quando visitai Copenaghen non potei fare a meno di recarmi a Rungsted, dove la casa della famiglia Blixen oggi è uno splendido museo, che offre la possibilità di contemplare quella “stanza tutta per sé” dove ha plasmato le sue memorie e scritto i suoi capolavori. Ecco le mie impressioni pubblicate su IlGiunco.net, al confine tra letterature e geografie.