Thomas.

Una poesia nata dai miei ricordi del Burkina Faso, la “Terra degli uomini integri”, come il miracoloso Thomas Sankara.

 

Thomas

(Ricordi della Terra degli uomini integri).

Cancellasti il nome coloniale – lo

ribattezzasti per un inizio esplosivo:

la terra degli uomini integri. Nudi,

sulla terra, si battono i piedi – sono

ritmo e pulsazione – una rivoluzione

che conobbe corta fioritura. Parlasti

al mondo, intero, tutto riunito, per

assicurare la tua voce al futuro sempre

più anteriore. Neanche la tua tomba

conobbe pace – le ossa, le vertebre,

le falangi – di chi protese mani di

saluto all’occidente rapace. Nella

polvere rossa, in disparte (la solleva

l’harmattan) un vento feroce che

impasta la luce e la inghiotte in una

notte precoce – come fu la tua propria

stagione – scommessa di una salvezza

che conobbe solo promessa e si spezzò

al suono fitto di un proiettile genuflesso.

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Ricordi di Huruma

La storia di Aisha mi ha fatto tornare alla mente quegli stessi orizzonti. Anche io ho lavorato nell’Africa più reietta e marginale. Nel 2011 per qualche settimana ho fatto volontariato in una delle bidonville più feroci di Nairobi: Huruma, che anche Alex Zanotelli ricorda nel suo illuminante Korogocho: alla scuola dei poveri. Huruma significa, in swahili, “compassione”, “benevolenza”, “misericordia”: l’ironia è alla base della nomenclatura di questi luoghi d’inferno. Huruma è la bidonville che si trova di fronte alla immensa discarica di Korogocho, dove sopravvive un’umanità considerata residuale ma fondamentale per muovere un’economia in cui il capitale pone le sue fondamenta.
Era pericoloso entrare a Huruma, innegabilmente. Il bianco, il mzungu, è odiato, con ragione. Si concentra sul bianco, chiunque sia, la responsabilità della condizione infima a cui si è costretti, in quei luoghi che sono oltre la vergogna e il disprezzo dell’alterità. Uomini donne bambini accatastati in condizioni bestiali, se questo aggettivo limitante può essere utilizzato per rendere un’idea.
Questa è una poesia nata su quei ricordi.

Ricordi d’Huruma.

La terra rossa scava i miei occhi,
macchia i miei denti. La terra
rossa spolpa il mio teschio, mi
sparpaglia le ossa. Come non
sentire? Né ascoltare? Come
non aprirsi alla voce che battezza
al passaggio? Mzungu, mzungu
fin dove si arriva a camminare…
mzungu! Lascio lo sguardo al cielo,
incontro le nubi che non sono già
più come sono, come erano; sempre
diverse, lontane, distanti, nella
polvere che soffia come vento, nel
vento che s’impasta come pioggia.

A voce alta: “La casa vicino al mare” di Giorgio Seferis

La poesia di oggi ha come tema la casa, uno spazio che ci siamo trovati ad abitare in maniera completamente diversa rispetto a prima. Le parole sono di Giorgio Seferis, premio Nobel per la poesia nel 1963, e il componimento si intitola “La casa vicino al mare”.
#avocealta

A voce alta “Con l’avvallo delle nuvole” di Hilde Domin

Oggi, #avocealta, ci spostiamo, “Con l’avvallo delle nuvole”, da un continente all’altro, tra Europa e Repubblica Dominicana, seguendo le parole e la poesia di Hilde Domin.

Sarajevo, il destino beffardo di Admira e Boško

“Non ti abbandono, neanche adesso che la nostra ombra si spezza e frana a terra. Non corro più, tanto a che serve? Rimango qui, accanto a te. Allungo il braccio, ti sfioro, pelle contro pelle, seguo il tuo profilo. Ti cullo, con la voce, ti sussurro una canzone. Le colline sono altissime, adesso: quanto abbiamo sognato di superarle, di poter fuggire al di là di tutto, per poter imparare a vivere. Che bello è stato anche solo pensare di poter essere più forti del destino. Ti chiamo, non mi rispondi. Un’ultima volta dico il tuo nome. Chissà dove sei; anche se ti vedo, due passi avanti a me. Mi trascino, con l’ultimo respiro so che ti conosco. Soffro nel perderti, perché so che ti sto perdendo. O forse ti ho già perso, chissà dove sei andato. Adesso tutto diventa ombra, anche per me. Non distinguo più una linea, la curva dolce del fiume. Un attimo di pace, un ultimo sforzo e ti abbraccio forte. Quasi mi allaccio al tuo corpo per non perderti più. Ti tengo forte, contro di me, e so che, così tanto, non ti ho mai amato.”

Otto giorni sotto il sole, abbandonati alla furia di un odio cieco e senza senso. Tutti potevano vederli, nei pressi del ponte di Vrbanja, vestiti dei loro jeans e le scarpe da tennis che indossavano come tanti altri ragazzi in ogni parte del mondo. Ma loro non abitavano in una qualsiasi città dell’Europa: Sarajevo, nel 1993, era una città assediata, insulsamente serrata in una morsa feroce. Le sue colline erano occupate da cecchini vigliacchi, senza volto e senza nome, che sparavano a chiunque si muovesse per le strade: senza criterio né pianificazione, ma con l’obiettivo non tanto di uccidere quanto di ferire e mutilare. Ancora di più, quello di terrorizzare una popolazione inerme, che si vedeva privata della quotidianità più necessaria ed essenziale. La guerra è anche umiliazione, tentativo neanche troppo difficile di condurre alla follia. E gli abitanti di Sarajevo furono per anni animali in gabbia, carni da macello, istituzionalizzati e ignorati da un’opinione pubblica che, nonostante la città fosse nel cuore dell’Europa, si ritenne esonerata dall’interessarsi delle sorti di questa terra e dei suoi abitanti.

Otto giorni rimasero esposti al sole, all’aria, al disprezzo degli assedianti e alla pietà degli assediati: Admira Ismić e Boško Brkić. Musulmana lei, serbo lui. Venticinque anni entrambi ed entrambi innamorati. Per il loro destino furioso, si sono meritati l’appellativo di “Romeo and Juliet in Sarajevo”, dal titolo di un documentario del canadese John Zaritsky: una concessione postuma – e beffarda – a un romanticismo posticcio e inutile. Si erano innamorati in un bar, i due ragazzi. Come due normali giovani cresciuti in una città di qualsiasi altrove. Come ogni giovane innamorato, non si erano chiesti se le loro religioni diverse, o le loro etnie, potessero essere un problema. L’amore non è condizionato da nulla, si alimenta da sé stesso, non ha pregiudizi né preclusioni. Si erano amati, mentre la guerra intorno cresceva e infuriava e l’assedio si faceva ora dopo ora, giorno dopo giorno sempre più feroce e senza speranza. Si erano concessi promesse, avevano iniziato a conoscersi, forse non avevano neanche avuto il tempo di litigare. Ma quale futuro ci poteva essere nella loro bella città sfregiata dai cecchini, dalle esplosioni, dal dolore ruggente dietro ogni angolo di casa? Nella fretta della loro giovane età volevano godersi il loro amore nella libertà complice, nelle possibilità sfrenate che il sentimento pretende, nella voglia di potersi concedere l’uno all’altra senza l’onere di una morte incombente. Vivevano nella parte musulmana della città, coi genitori di Admira; avrebbero voluto stare un po’ dai genitori di Boško, nella parte serba, per poi lasciare quel posto di morte, quella città affondata nel vortice dell’odio e drammaticamente dimenticata dal resto del mondo.

Persino attraversare un torrente però, in quei tempi scuri, era una follia insensata, un azzardo senza futuro. Decisero comunque di provare, Admira e Boško; fuggire da una città paralizzata, in preda alla follia più cieca, e appartenersi erano i loro unici interessi. Era il 18 maggio 1993; l’assedio di Sarajevo durava oramai da più di un anno e, all’orizzonte, non si profilavano soluzioni; all’opposto, diventava sempre più evidente come nonostante la sovraesposizione mediatica, il martirio di quelle regioni dei Balcani non interessasse nessuno. Si saranno detti Admira e Boško, prima di scattare nella corsa, che era un azzardo incredibilmente folle esporsi alla vista dei cecchini e tentare di attraversare il ponte Vrbanja? Proprio quello dove erano state sacrificate le prime due vittime di questa follia senza senso: Suada Diliberović, una studentessa bosgnacca, e Olga Sučić, una pacifista croata, anche loro fatalmente centrate da un anonimo cecchino. Chissà se credevano nel caso o nel destino, Admira e Boško. Perché con loro il caso fu inclemente e il destino ancora più brutale. I cecchini li videro, prevedibilmente, e altrettanto assurdamente li colpirono, sicuri e gelidi. Boško cadde subito, fulminato dal proiettile. Chissà quale fu l’ultima immagine, quale l’ultimo pensiero. Magari per Admira, o magari la morte fu troppo rapida persino per quello. Admira invece fu ferita ed ebbe il tempo e la fermezza di non abbandonare il suo amore. Si avvicinò al corpo di Boško, lo abbracciò e poi restituì il fiato, arrendendosi al prevedibile destino.

Otto giorni rimasero esposti, proprio sulla linea del fronte. Ad irrigidirsi nel normale percorso della morte. L’abbraccio che diventò una morsa, salda, a proteggersi. Nessuno riusciva a recuperarli: troppo furioso il fuoco incrociato, troppo rischioso avvicinarsi. Otto giorno prima di autorizzare un cessate il fuoco tra le parti. Furono recuperati dai soldati serbi e sepolti in fretta, sulle colline, sotto una semplice croce, perché la tregua non si sapeva quanto avrebbe resistito. Admira e Boško dovettero aspettare il 1996 per avere una tomba degna, altri tre anni a sfregiare la loro memoria. Sulla loro tomba, oggi, c’è la loro immagine incorniciata in un enorme cuore di granito, nel Lion Cemetery a Sarajevo, sulle pendici di quelle colline dalle quali, per loro, giunse spietata la fine. Di fronte al cimitero, il bar del loro amore, quello dove si incontrarono e si innamorarono. È tutto così vicino, in quella città: morte e amore, il futuro e la fine a distanza di pochi passi. Ancora oggi, dopo lunghi anni, i segni incancellabili della violenza; perché il corpo muore ma la memoria perdura. E, a ragione, incolpa tutti.

Fonti: In ricordo di Admira Ismić e Boško Brkić, in “Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS”, http://www.cnj.it/documentazione/admirabosko.htm; Romeo e Giulietta riposano a Sarajevo, in “LaRepubblica.it” (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/04/10/romeo-giulietta-riposano-sarajevo.html?refresh_ce), 10 aprile 1996; Maria Serena Natale, Romeo e Giulietta a Sarajevo, una canzone vent’anni dopo, in “Solferino 28 anni” (http://solferino28.corriere.it/2013/06/07/romeo-e-giulietta-a-sarajevo-una-canzone-ventanni-dopo/), 7 giugno 2013; Andrea Gagliarducci, La guerra a Sarajevo ha ucciso anche “Romeo e Giulietta”, in “Acistampa” (http://www.acistampa.com/story/la-guerra-a-sarajevo-ha-ucciso-anche-romeo-e-giulietta-0722), 6 giugno 2015.

VAROSIA, dove il tempo ha avuto paura

“Prendi la tua ombra e scappa. Scappa lontano. Lascia tutto qua, piatti, libri, vestiti. Non importa chiudere le finestre, tanto torneremo presto. Le porte, lasciale pure spalancate all’aria della notte. Cipro è calda, nessuno si raffredderà. Non abbiamo un attimo per guardare indietro, per serrare i nostri luoghi in difesa di un domani che chissà quando verrà. Lascia pure tutto qua, il piatto, il bicchiere riempito di vino, il cucchiaino di zucchero a sciogliersi nel caffè. Quegli armadi pieni di vestiti, queste spiagge, lontane, che così tanti turisti richiamavano da ogni altro altrove. Lascia ogni tuo luogo, ogni tuo ricordo deposto negli angoli delle stanze, su quei vetri ai quali aspettavi il suo ritorno. Lascia la porta aperta agli uccelli che migrano, che da qui passano e poi, chissà quando, ritornano”.

A 35°07′09″N 33°57′10″E ci troviamo sull’isola di Cipro, terra mitica e leggendaria, sulle cui coste la leggenda narra che sia nata Afrodite, la dea della bellezza. E Cipro di bellezza ne possiede tanta, orgogliosamente. Una bellezza di arte e di storia, di incontri e di crocevia, di natura e di paesaggi. Come Famagosta, l’eroica città che fu più volte assediata e conquistata, che porta ancora oggi le tracce dei suoi tanti passati e dove la leggenda vuole che Shakespeare ambientasse il suo “Otello” tanto famoso. Ma Famagosta è anche una significativa prova, evidente, del dramma di Cipro; quello che dagli anni ’70, e in particolare dal 1974, portò a una divisione dell’isola, a una separazione che ancora ferisce e taglia un popolo e una terra. Nel 1974 l’esercito turco assaltò l’isola, la conquistò, spingendosi fino alla Linea Attila, che ancora oggi è il confine interno, e la occupò, tracciando una linea immaginaria tra due comunità e due territori uniti. Persino la capitale, chiamata a seconda da chi la pronuncia Lefkosia o Lefkoşa, è tutt’ora l’unica capitale al mondo divisa in due da un confine, da un’assurda linea tracciata chissà con quali criteri, con un check point da attraversare per passare da una parte all’altra. Tra le due parti, una striscia di nessuno, una terra che non conosce proprietario ma che è pattugliata dalle Forze peacekeeping dell’ONU.
È alla periferia di Famagosta, tuttavia, che sta, abbandonata e sola, la prova più tangibile, la testimonianza più angosciosa, di questo dramma di cui non si profila soluzione: Varosia. Varosia è il quartiere dei greco-ciprioti di Famagosta. Piuttosto, fu. Oggi quel che rimane è un’agghiacciante città fantasma, chiusa in metri di rete e filo spinato, soffocata da piante e fichi d’India, che si sono impadroniti di quelli che una volta furono cortili e giardini, stanza e salotti, cucine gonfie di odori e camere da letto di sogni notturni. È anche un lungomare spettrale, popolato da alberghi svettanti ma vuoti, ciechi di vita e di turismo: pensare che, prima degli anni ’70, quelle spiagge erano tra le più ricercate dell’isola, meta di un turismo ricco e spendaccione. Sono ecomostri, e lo erano anche prima, ma oggi, lasciati alla dissoluzione progressiva degli agenti atmosferici, con persino le macchine ancora parcheggiate nei garage sotterranei, sono ancora più spettrali e lugubri. Anche in quei giorni del 1974, ignari di ciò che si sarebbe abbattuto sull’isola di lì a poco, i turisti popolavano le stanze lussuose di questi alberghi, formicolando sulle spiagge e sguazzando nelle acque di uno splendido Mediterraneo. Alla notizia dell’invasione, però, non ci fu tempo neanche per pensare: tutti in fuga, uno dietro all’altro, senza il tempo di salire nelle proprie stanze per prendere l’indispensabile; una fuga rovinosa in ciabatte, a piedi, lasciando colazioni nei piatti, le macchine parcheggiate, gli ombrelloni e le sdraio aperte sull’arenile. Tutto, oggi, è ancora lì. Le lenzuola nei letti, gli avanzi delle colazioni nei piatti, i fiori secchi nei vasi, qualche ombrellone ancora a fare ombra su una spiaggia deserta, le chiavi delle stanze sui banconi, il registro delle presenze aperto a una data oramai storica, l’agosto del 1974. È così, in queste condizioni, è tutto il resto del quartiere di Varosia: completamente disabitata, ogni casa deserta e ferma, immobile, in un tempo che ha avuto paura e non è più tornato, non ha più ricominciato a muoversi.
Varosia è testimonianza feroce di quel che possono fare l’incapacità e la stupidità umane. La Storia racconta, infatti, che fu un generale inglese, presa una cartina di Cipro, a tracciare una linea verde, per segnare le due zone di influenza sull’isola, tra turchi e greci. Varosia non era stata compresa nella parte turca, sarebbe dovuta rimanere ai greco-ciprioti che lì lavoravano negli spettacoli e nei lussuosi alberghi. Ma i turchi non rispettarono gli accordi e in quel 1974 si affondarono ben oltre la linea verde. Gli abitanti di Varosia, insieme ai turisti, alla notizia devastante dell’avanzata dell’esercito turco, se ne andarono precipitosamente, abbandonando le loro case. Si dice che le lampadine siano rimaste accese per settimane, fino a esaurirsi; si dice che tutt’oggi ci siano i tavoli lasciati apparecchiati per una fuga così inattesa e irreversibile. Oggi, è un pezzo di Cipro ancora deserto, lasciato così forse come monito forse come ostaggio forse come rimorso. Raccontarlo è ben diverso dal vederlo: la vista di queste case getta un’ombra di profonda angoscia, di ansia, di precarietà esistenziale. Tutto, a Varosia, è fermo a quarant’anni fa, anche se si può soltanto gettare una svelta occhiata per cogliere qualcosa. Minacciosi cartelli, infatti, ribadiscono (e un po’ spaventano) che nella zona è assolutamente proibito entrare e che non si possono scattare foto. Off limits, per ragioni che forse si basano solo su un senso di colpa difficile da emendare.
Ma qualcheduno è tornato, su quelle spiagge, rispettando un antico patto istintivo e cromosomico. Sono tornate le tartarughe. Loro, almeno, tornano sull’arenile, depongono le uova e ripartono, confidando che il caso sia clemente coi loro figli; i quali, a loro volta, torneranno sulla stessa spiaggia a consegnare al futuro i loro cuccioli. Una parte di mondo, insomma, perduta dagli uomini ma riconquistata dalla natura e dalle sue antiche leggi.

Varosia

Fonti: Lara Gusatto, Il brivido caldo delle ghost-town, in LaRepubblica.it Viaggi, 3 febbraio 2011; Richard Hooper and Vibeke Venema, Varosha: The abandoned tourist resort, in BBC News Magazine, 14 gennaio 2014; Alessio Grosso, Appello ai Turchi per Varosha, la Riccione fantasma di Cipro: salvatela!, in MeteoLive.leonardo.it, 27 febbraio 2014; Vesna Marić, Cipro, Lonely Planet, 2015