“Prendi la tua ombra e scappa. Scappa lontano. Lascia tutto qua, piatti, libri, vestiti. Non importa chiudere le finestre, tanto torneremo presto. Le porte, lasciale pure spalancate all’aria della notte. Cipro è calda, nessuno si raffredderà. Non abbiamo un attimo per guardare indietro, per serrare i nostri luoghi in difesa di un domani che chissà quando verrà. Lascia pure tutto qua, il piatto, il bicchiere riempito di vino, il cucchiaino di zucchero a sciogliersi nel caffè. Quegli armadi pieni di vestiti, queste spiagge, lontane, che così tanti turisti richiamavano da ogni altro altrove. Lascia ogni tuo luogo, ogni tuo ricordo deposto negli angoli delle stanze, su quei vetri ai quali aspettavi il suo ritorno. Lascia la porta aperta agli uccelli che migrano, che da qui passano e poi, chissà quando, ritornano”.
A 35°07′09″N 33°57′10″E ci troviamo sull’isola di Cipro, terra mitica e leggendaria, sulle cui coste la leggenda narra che sia nata Afrodite, la dea della bellezza. E Cipro di bellezza ne possiede tanta, orgogliosamente. Una bellezza di arte e di storia, di incontri e di crocevia, di natura e di paesaggi. Come Famagosta, l’eroica città che fu più volte assediata e conquistata, che porta ancora oggi le tracce dei suoi tanti passati e dove la leggenda vuole che Shakespeare ambientasse il suo “Otello” tanto famoso. Ma Famagosta è anche una significativa prova, evidente, del dramma di Cipro; quello che dagli anni ’70, e in particolare dal 1974, portò a una divisione dell’isola, a una separazione che ancora ferisce e taglia un popolo e una terra. Nel 1974 l’esercito turco assaltò l’isola, la conquistò, spingendosi fino alla Linea Attila, che ancora oggi è il confine interno, e la occupò, tracciando una linea immaginaria tra due comunità e due territori uniti. Persino la capitale, chiamata a seconda da chi la pronuncia Lefkosia o Lefkoşa, è tutt’ora l’unica capitale al mondo divisa in due da un confine, da un’assurda linea tracciata chissà con quali criteri, con un check point da attraversare per passare da una parte all’altra. Tra le due parti, una striscia di nessuno, una terra che non conosce proprietario ma che è pattugliata dalle Forze peacekeeping dell’ONU.
È alla periferia di Famagosta, tuttavia, che sta, abbandonata e sola, la prova più tangibile, la testimonianza più angosciosa, di questo dramma di cui non si profila soluzione: Varosia. Varosia è il quartiere dei greco-ciprioti di Famagosta. Piuttosto, fu. Oggi quel che rimane è un’agghiacciante città fantasma, chiusa in metri di rete e filo spinato, soffocata da piante e fichi d’India, che si sono impadroniti di quelli che una volta furono cortili e giardini, stanza e salotti, cucine gonfie di odori e camere da letto di sogni notturni. È anche un lungomare spettrale, popolato da alberghi svettanti ma vuoti, ciechi di vita e di turismo: pensare che, prima degli anni ’70, quelle spiagge erano tra le più ricercate dell’isola, meta di un turismo ricco e spendaccione. Sono ecomostri, e lo erano anche prima, ma oggi, lasciati alla dissoluzione progressiva degli agenti atmosferici, con persino le macchine ancora parcheggiate nei garage sotterranei, sono ancora più spettrali e lugubri. Anche in quei giorni del 1974, ignari di ciò che si sarebbe abbattuto sull’isola di lì a poco, i turisti popolavano le stanze lussuose di questi alberghi, formicolando sulle spiagge e sguazzando nelle acque di uno splendido Mediterraneo. Alla notizia dell’invasione, però, non ci fu tempo neanche per pensare: tutti in fuga, uno dietro all’altro, senza il tempo di salire nelle proprie stanze per prendere l’indispensabile; una fuga rovinosa in ciabatte, a piedi, lasciando colazioni nei piatti, le macchine parcheggiate, gli ombrelloni e le sdraio aperte sull’arenile. Tutto, oggi, è ancora lì. Le lenzuola nei letti, gli avanzi delle colazioni nei piatti, i fiori secchi nei vasi, qualche ombrellone ancora a fare ombra su una spiaggia deserta, le chiavi delle stanze sui banconi, il registro delle presenze aperto a una data oramai storica, l’agosto del 1974. È così, in queste condizioni, è tutto il resto del quartiere di Varosia: completamente disabitata, ogni casa deserta e ferma, immobile, in un tempo che ha avuto paura e non è più tornato, non ha più ricominciato a muoversi.
Varosia è testimonianza feroce di quel che possono fare l’incapacità e la stupidità umane. La Storia racconta, infatti, che fu un generale inglese, presa una cartina di Cipro, a tracciare una linea verde, per segnare le due zone di influenza sull’isola, tra turchi e greci. Varosia non era stata compresa nella parte turca, sarebbe dovuta rimanere ai greco-ciprioti che lì lavoravano negli spettacoli e nei lussuosi alberghi. Ma i turchi non rispettarono gli accordi e in quel 1974 si affondarono ben oltre la linea verde. Gli abitanti di Varosia, insieme ai turisti, alla notizia devastante dell’avanzata dell’esercito turco, se ne andarono precipitosamente, abbandonando le loro case. Si dice che le lampadine siano rimaste accese per settimane, fino a esaurirsi; si dice che tutt’oggi ci siano i tavoli lasciati apparecchiati per una fuga così inattesa e irreversibile. Oggi, è un pezzo di Cipro ancora deserto, lasciato così forse come monito forse come ostaggio forse come rimorso. Raccontarlo è ben diverso dal vederlo: la vista di queste case getta un’ombra di profonda angoscia, di ansia, di precarietà esistenziale. Tutto, a Varosia, è fermo a quarant’anni fa, anche se si può soltanto gettare una svelta occhiata per cogliere qualcosa. Minacciosi cartelli, infatti, ribadiscono (e un po’ spaventano) che nella zona è assolutamente proibito entrare e che non si possono scattare foto. Off limits, per ragioni che forse si basano solo su un senso di colpa difficile da emendare.
Ma qualcheduno è tornato, su quelle spiagge, rispettando un antico patto istintivo e cromosomico. Sono tornate le tartarughe. Loro, almeno, tornano sull’arenile, depongono le uova e ripartono, confidando che il caso sia clemente coi loro figli; i quali, a loro volta, torneranno sulla stessa spiaggia a consegnare al futuro i loro cuccioli. Una parte di mondo, insomma, perduta dagli uomini ma riconquistata dalla natura e dalle sue antiche leggi.

Fonti: Lara Gusatto, Il brivido caldo delle ghost-town, in LaRepubblica.it Viaggi, 3 febbraio 2011; Richard Hooper and Vibeke Venema, Varosha: The abandoned tourist resort, in BBC News Magazine, 14 gennaio 2014; Alessio Grosso, Appello ai Turchi per Varosha, la Riccione fantasma di Cipro: salvatela!, in MeteoLive.leonardo.it, 27 febbraio 2014; Vesna Marić, Cipro, Lonely Planet, 2015