Regolarizzazione.

La poesia può certamente – e deve pretendere di farlo – indicare nuove narrazioni possibili nell’assordante e becero scontro politico che riguarda corpi e persone, prima che operai e forza lavoro. Perché la “regolarizzazione” non deve mai essere un privilegio o un ricatto, ma il riconoscimento dell’esistenza di un essere umano, indipendentemente da quanto profitto potremmo ricavarci (anche perché regolarizzarsi costa tanto, troppo, in tasse e contributi a uno stato che ti ha già macellato).

Un piccolo contributo, una piccola mia poesia, per questo tempo infame.

 

Regolarizzazione.

L’Italia è una Repubblica basata sul

nostro dolore – infamante quel termine:

regolarizzazione, perché non c’è riscatto,

perché lascia permesso l’umano a

uno stato allibratore. Non abitiamo la

pelle le ossa il nostro intimo decoro ma

solo gli anfratti rimossi del nostro lavoro.

E l’inverno comincia sulle calde e

sporche mani a raccogliere arance

esplose di colore – un odore che ci

illumina e scompare nell’aria, come

qualcosa che piange e non sa consolare.

Poi le stagioni rotolano ancora coi

pomodori e con le fragole – un rosso

di sangue e sudore così simile alla

salvezza quando arriva – forse – per

un corpo alla deriva in un mare abissale.

E poi basta, a nascondersi, a lasciarsi

dis-umanizzati nelle reti del caporale.

Non bastò il sacrificio del nome – delle

parole delle orme perse, il loro suono

sordo, del frustato addome. Le nostre

braccia in-braccianti cassette e storie

sfiorenti nei campi dove nessuno

ci vede mai né mai saprebbe.

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