Una poesia mia, scritta sui ricordi della mia visita all’isola di Gorée, in Senegal, e alla vista, emozionante e squassante, della Porta del non ritorno, nella Maison des Esclaves.
Una porta – uno squarcio nel buio di
una roccia – un lampo di azzurro che
mi accartoccia. Dà le vertigini quest’
aria che trascorre, senza mai porsi
problemi di trasporre il mio volto e
quello di chissà chi altro. È il buio
sordo di un tempo che non conosce
più stagione – il buio che accoglie e
fascia un uomo che cammina – ferisce
la parete liquida, una luce feroce che
smarrisce il mio corpo nel racconto
di un destino comune e veloce. Da qui
si parte e non si torna – si sale spinti
su tavole sparse – si spezza il tempo
futuro che non si ricompone sulla mia
lingua rozza. E spruzza la montagna
quando rompe le acque e ha il vento
in poppa – chissà dove approda. Io
depongo le mie ossa in questa casa
lascio il sangue al vento – si miscela
con la bava del mare indifferente.
Se è lui a portarmi là, saprà anche
che io – arpionato – sono rimasto qua.