A voce alta: A un ignoto di Walt Whitman

Poco importa se Walt Whitman, il padre della poesia statunitense, fosse effettivamente omosessuale: la struggente bellezza della sezione Calamus del suo capolavoro Foglie d’erba è un dono stupefacente a ogni tipo di amore, perché ogni amore merita lo stesso rispetto e gli stessi diritti. Oggi leggo, #avocealta#, A un ignoto.

A voce alta: L’amore dorme nel petto del poeta di Federico García Lorca

Un amore “oscurato” e tenuto nascosto per tanto tempo, quello di Federico García Lorca, che esplode prepotente nei Sonetti dell’amore oscuro, pubblicati solo nel 1984. Oggi leggo #avocealta L’amore dorme nel petto del poeta.

Pedro e Muño, vi dichiaro marito e marito.

Ti prendo la mano e non te la lascio andare. Te la tengo stretta perché solo tu mi importi. Solo tu sai tutto di me, e te lo conservi sicuro e al riparo dalle molestie altrui. Ti stringo la mano e ti guardo negli occhi; lo sguardo diretto e senza dubbio alcuno. Intreccia le tue dita alle mie, assieme camminiamo, fieri e senza timore. Io mi chiamo Pedro, tu Muño; e non è un problema, lo sarà soltanto molti anni dopo. Ma adesso non ci preoccupiamo, non ci chiediamo nulla. Qui, adesso ci abbracciamo, ci regaliamo i nostri beni, le nostre visioni, gli orizzonti che saranno più comuni; e basta, adesso rimani in silenzio e non dire più nulla, perché qua attorno è tutta una festa; tutto un tripudio per un amore come il nostro…

È il 16 aprile 1061. Chissà se c’era il tramonto, a Rairiz de Veiga, un comune della Galizia spagnola? Poco più di 140 chilometri a sud di uno dei luoghi più religiosi del mondo, il monastero di Santiago de Compostela. Coordinate, più o meno queste: 42°04′59.16″N 7°49′55.92″W. Poche case, un paesaggio forse quasi spopolato. Chissà se era invece l’alba o il tardo pomeriggio? C’è del movimento attorno a una piccola cappella di campagna. In realtà, non si sa granché del modo in cui accadde, ma un documento ritrovato al Monastero di San Salvador de Celanova (e oggi conservato all’Archivo Histórico Nacional di Madrid), svela che due uomini contrassero un matrimonio cristiano cattolico, correttamente officiato da un prete, all’interno di un luogo consacrato al culto. Lo fecero senza nessun trucco né fingendosi altri se non loro stessi.

Si chiamavano Pedro Díaz e Muño Vandilaz.

Come potevano essere ce lo immaginiamo solamente. Magari giovani e bellissimi; oppure anziani e acciaccati d’età e di dolori per la troppa vita vissuta. Chissà. Quest’assenza di dati e di informazioni li rende ancora più affascinanti ai nostri occhi di curiosi spettatori lontani. Sappiamo che vivevano assieme, vicino alla Chiesa di Santa María de Ordes. Chissà i commenti, le maldicenze, le dicerie feroci, come quelle dei nostri pianerottoli e dei nostri cortili. O forse no, neanche: perché se fu loro possibile sposarsi in chiesa, di fronte alle statue di santi e sante di Dio, con un prete a officiare, magari era tutto normale, tutto piuttosto ordinario. Era consuetudine o il loro fu permesso speciale? Anche questo non ci è possibile dirlo. Chissà la gente, la partecipazione; o forse una cerimonia riservatissima, pochi occhi e ancor meno mani per un momento così vitale. Anni dopo, persino eroico.

Probabilmente, rovinando un po’ l’idea più romantica possibile, si trattò di una cerimonia di adelphopoiesis, ovvero di “gemellaggio” (hermanamiento, in spagnolo) con la quale, secondo forme uguali al matrimonio, di univano in un rapporto stretto due persone, anche uomini. Un rapporto principalmente incentrato sulla condivisione, messa per iscritto e pertanto diventata un contratto da rispettare, di tutti gli aspetti della vita di ognuno, dalle attività quotidiane al cibo, dai vestiti alla casa, consegnandosi reciprocamente come “amicos bonos cum fide et veritate”, “buoni amici con fedeltà e verità”, più o meno. Si impegnavano anche a mantenere le stesse amicizie e a conservare le stesse inimicizie: come a dire che anche in questo campo l’unione non può venir meno, a prescindere da tutto il resto.

Ma, in definitiva, il matrimonio che cosa è se non un contratto, legalmente vincolante, più che un’impresa d’amore? Altrimenti dovrebbe finire assieme al sentimento. Durando “finché morte non vi separi” non significa che la morte pone fine all’affetto, ma che pone fine al valore legale di un atto. Sicché, se il matrimonio è “solo” un contratto – un contratto che però stabilisce e garantisce dei diritti altrimenti ferocemente inesistenti – che importanza può avere chi lo stipula? Pedro e Muño lo fecero e chissà, magari sono stati gli uomini più felici che la storia dell’umanità ricordi.

Fu Carlos Callón, professore di lingua e letteratura galiziana, a scoprire i loro nomi e la loro storia, parlandone nel libro Amigos e sodomitas: a configuración da homosexualidade na Idade Media, edito nel 2011 e vincitore dell’importante Premio Vicente Risco de Ciencias Sociais: “Analizzo – sue, le parole – come si costruisce il pregiudizio anti omosessuali, come si crea l’idea di sodomia e come si converte in peccato qualcosa che non lo era stato per i primi mille anni del Cristianesimo”.

In Spagna, arriverà poi il 2005. Il governo Zapatero. Un anno epocale. La crisi era prossima ma nessuno ne sospettava l’abbattersi furioso. La Spagna era una delle nazioni europee più forti e in ascesa. Il sogno sarebbe durato poco, però in quel 2005 l’attenzione del mondo fu catturata per un altro motivo: la legge 13/2005, del 1° luglio, con cui si decretava che «Il matrimonio avrà gli stessi requisiti e gli stessi effetti quando entrambi i coniugi siano dello stesso sesso». Da allora, tantissime coppie si sono sposate, sottoscrivendo quel contratto, impossessandosi di quei diritti umani che dovrebbero spettare a tutti; altrimenti sono privilegi. Nonostante questo, la Spagna esiste ancora e con la Spagna esiste il popolo spagnolo, per nulla annientato da qualche presunta (e invocata) ira divina.

Fonti:
Carlos Callón, Amigos e sodomitas: a configuración da homosexualidade na Idade Media, Sotelo Blanco, Santiago de Compostela 2011
M.J.A., El primer matrimonio homosexual de Galicia se ofició en 1061 en Rairiz de Veiga, da http://www.farodevigo.es, 27 febbraio 2011
Miguel Magdalena, Versos por el primer matrimonio homosexual de Galicia, da www.elmundo.es, 13 aprile 2011

«Che ti sia lieve la terra», eroici amori del quotidiano

«Che ti sia lieve la terra», eroici amori del quotidiano.

Quattro sono le donne protagoniste del romanzo di Camilla de Concini (Che ti sia lieve la terra, YouCanPrint), quattro sono i punti di vista, i percorsi, le traiettorie di vita. Donne di ogni età, donne che rincorrono sé stesse e le altre oltre confini e influenze culturali, che squadernano la loro femminilità in ogni ambito e aspetto del loro vivere e del loro agire.
Nur, Olivia, Irena e Nina sono le quattro voci, presenti e passate, che si intrecciano nel racconto di una storia corale e comune, di vissuti tessuti e allacciati da molti nodi. Oliva è la figlia di Nina. Alla morte della madre, la zia Nur la prende con sé e la riporta in quel Libano lontano, terra d’origine della madre, un luogo amato e odiato. E comincia, così, un percorso di rielaborazione memoriale, un cammino accidentato – ma, al tempo stesso, ricco di umanità e di contatti – che conduce ogni protagonista a un luogo di futuro benessere. Ogni donna, nella storia, si trova a dover fare i conti con scoperte inedite, con percorsi inattesi e alcuni infruttuosi, con decisioni da prendere e nuovi incontri che squarciano un panorama noto e proiettano nei territori sconosciuti e apparentemente terrificanti della diversità e dell’ineguaglianza.
I legami familiari, quello tra sorelle, quello tra madre e figlia, quello tra zia e nipote, quello tra amate (ma anche quello tra padre e figlia), vengono sviscerati e affrontati con attenzione e puntualità, con la sottaciuta consapevolezza che non si possa tutto contenere nel bordo di un foglio. Mentre si plasmano concreti, a tutto tondo, in carne e fiato, i personaggi alimentano anche le nostre coscienze, ci si palesano come concreti, realmente esistenti, come se si potessero trovare sul pianerottolo di casa o alla fermata della metro. Quelli di Camilla de Concini son personaggi genuini nel senso più puro del termine, perché non stra-ordinari né stupefacenti, quanto piuttosto eroi del quotidiano, paladini di una vita che a tutti potrebbe toccare, con le sue sofferenze e i dolori da distillare goccia a goccia.
Tanti scenari ci passano davanti agli occhi, in questo romanzo, che è anche un’avventura di orizzonti e confini diversi, una storia che si dipana attraverso terre diverse e apparentemente lontane, che fugge dai colli bolognesi, tocca Mostar e le ferite ancora evidenti di una guerra assurda, approda in Libano, in un’altra terra martoriata da ferite profonde, per poi perdersi in altre città e popoli, tagliando con una facilità sorprendente qualsiasi frontiera e barriera: perché l’amore ha, più o meno banalmente, la potenza di un tifone, la furia tellurica di un terremoto, e non si è può di certo fermare impotente di fronte all’assenza di un timbro.

Booktrailer: https://www.youtube.com/watch?v=bxRVsw_ll-Q

«Briciole da terra», il canzoniere degli amori di-versi.

Quello di Lillo Di Mauro (Briciole da terra di-versi amori, Edizioni Tracce 2015) è un canzoniere che, inevitabilmente, si misura con alcuni più famosi autori, da Saffo – traslata in Catullo (“A me pare un dio | nel suo sorriso sgomento”) – a Kavafis e Penna (“Stretto nei nervi del corpo, | lucido osserva scoscesi vicoli, | strade, ove acerbi giovinetti | dalle barocche bocche come fontane | zampillano puro desiderio”). Sia perché la materia poetica, a partire dall’eros (nel senso ampio) omosessuale, è comune e affine, sia perché le immagini, i richiami musicali e le forme poetiche sono piuttosto analoghi. Ma anche il recupero memoriale, fatto di frammenti, di squarci di ricordi, è un fil rouge che collega l’espressione poetica di Di Mauro con quella dei suoi modelli poetici di riferimento. Sono squarci di ricordo, lacerazioni di incontri, tangenze di vite che per breve tempo si sfiorano e poi divergono, prendendo ognuna delle strade diverse, pur conservandosi nella dolcezza del tocco: “La mia anima è fatta di segrete vicende | di cui solo la notte è testimone”.

Pur nella consapevolezza della propria naturalità (“Danzo libero e diverso, | felice d’esserlo”), il poeta va in cerca anche di una forma che non sia statica ma che sappia adattarsi ai cambi di direzioni che la vita infligge (“Verrebbe di farlo di notte | con tacito gesto | aprire la forma | che fa essere come si è”). Una nuova forma che non significa volubilità o incostanza, ma forma pratica di adattamento e trasformazione del sé (“Il divieto mi trascina verso la cattiva sorte, | m’impiglia in lacci di morte: | solo quei visi colmi di luce | che s’urtano correndo | in un parossismo crescente | sanno farmi dimenticare”). Una nuova dimensione, che procede spesso tra ombra e luce, tra contorni delineati e più sfocati (“Belli, con occhi gravidi di sesso | alle pareti del sogno appoggiati, | dissennate vite, destini già compiuti, | custodiscono giovinezze esuberanti, | che si liquefanno in rivoli | di trasparenze e ombre”), e che spesso scontorna nel successo di affermarsi eroi in un’umanità di reietti e perdenti: “Lo raccolsi tra le braccia | e così stemmo alla luna | senza suonar voce | ad aspettare l’ora in cui s’annega il buio | per poi tornare certi d’esser stati eroi”.

A contorno e culla di ogni umana sensazione sta salda la Natura; una Natura nobilitata che da spettatrice finisce per partecipare attivamente, collaborando alla creazione di un momento perfetto, non importa se felice o malinconico, ma pur sempre riverberante una perfezione d’intenti e presentimenti (“Levati in volo senza battito d’ali, | perch’io possa evocarti ogni giorno | come ossessivo ripetersi | del canto di un cuculo estivo”).

Un luogo privilegiato, in questo canzoniere, è Roma: una città, legata alle esperienze personali dell’autore, che ha avuto un valore fondamentale per tante altre vicende poetiche e omosessuali del passato Novecento e che adesso si trova a fare i conti con un presente svilito, ammutinato, un’attualità che la deturpa della sua grandezza e la relega a un ruolo comprimario in uno scenario globale. La grandezza di Roma, ora “blasfema e ignorante”, è crollata, franata con disonore, e persino gli amori ne risentono, non godendo più di quella bellezza diffusa che vi faceva da scenario e corollario. Di Roma rimane, dunque, una classicità che si plasma in linguaggio, con la scelta voluta di un lessico persino troppo aulico in qualche caso (finanche manierato) ma ricercato e non lasciato al caso, in una metrica rispettosa in linea di massima delle regole canoniche e di poche eccezioni o violenze, in una scelta di fonemi e significanti che si rincorrono e giocano tra loro (“Una notte, non una come tante, | sei stato la mia estate”).

Tra i limiti di questa classicità, trema sottopelle e sottoverso un eros dirompente, una sensualità che richiama sì modalità antiche e topiche ma che sa concedersi la delicatezza del gesto, l’assenza di volgarità, la giusta calibratura dell’accenno, del suggerimento pudico (“Fatti voce e chiamami | accogli la mia anima mite | perditi con me e perdonami | tu che dici d’essere l’ombra della sera | la morsa del mio desiderio | della mia bocca che s’inumida | e si schiude alle tue labbra”); così lontana, pertanto, da quella trivialità sboccata e quell’amore incostante sbandierati sui social dalle nuove generazioni di amanti e amatori digitali (“Cammino su un tappeto di foglie | amaranto e ruggine di sangue antico | ove si specchiano le moltitudini | clonate negli smartphone, | perse nei Social Network | dove scrivono “buongiorno, ti amo” | per odiarsi, poi, | quando si incontrano tristi | e frustrati nelle interminabili | code sulle autostrade”). Una sensualità che si declina, finanche, in una profonda e morbosa fisicità, una dimensione carnale che dà potenza e stuzzica il pensiero: “Come posso io fare | se patisco il tuo sguardo crudele, | l’armonia composta del tuo corpo, | quei muscoli che usi come dardi | e lacerano, ogni opposta resistenza”.

“L’inganno dei sensi, le infantili passioni” che compongono questo canzoniere di Lillo Di Mauro danno un significato tutto da scoprire all’esperienza amorosa, che straborda dai suoi stretti contorni e si squaderna per tutta l’esistenza del poeta, finendo per inglobare ogni singolo aspetto in una dimensione universale e inarrestabile del vivere, libero da condizionamenti e facili definizioni: “Distanze, solitudini | silenzio, dolore | voglio dormire, | non cercare risposte, | ma libero andare | senza essermi dato parole”.