Iniziamo col mio alfabeto – tra il poetico e il narrativo – del Covid19, un ripensamento delle parole che adesso, più che mai, hanno bisogno di una nuova risignificazione, di un nuovo battesimo per potersi separare dal precedente concetto (finto, abbiamo visto) di “normalità”.
Sarà un alfabeto randomico, senza ordine, perché è così che si imparano le nuove lingue; andando là dove c’è bisogno di andare.
Iniziamo con la lettera C come CASA.
Attendiamo tramonto e alba, con un
sole che tiepido scalda i balconi, i
vetri – di chi è più fortunato – spazi
all’aria sul deserto di una città. Le
finestre sono mute, ciechi gli angoli
dei muri dove si impigliano le trecce
della notte, le ombre d’ansia di un
tempo che scompare. Lo zerbino è
l’avamposto della nostra difesa, un
assedio dentro e fuori, le pareti sono
prigione e amputazione del nostro
libero – presunto – movimento. C’è
persino chi la casa non la trattiene,
la abbandona ogni notte in un angolo
diverso e mai più, la mattina, la
ritrova, spostata un po’ più là, senza
distanza di contenimento. Ed è un
accampamento, un rifugio, il
ricordo di un passato che adesso
non trova più nessun indugio. Le
case le conosciamo, come linee del
palmo, ma adesso ci contengono
e sorvegliano, ci denudano e
puniscono – oltre noi, si travestono.